La Cina difende il contrasto al protezionismo e all’unilateralismo, mentre il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ripensa a un possibile ingresso degli Usa nella Trans-Pacific Partnership, se le condizioni saranno “sostanzialmente migliori” di quelle offerte all’amministrazione guidata dal su predecessore, Barack Obama, un’eventualità che oggi non compare tra le priorità dei Paesi che fanno parte dell’alleanza commerciale del Pacifico, e che esclude la Cina.
Le nazioni rimaste nel Tpp, o Cptpp (Comprenhensive and Progressive Trans-Pacific Partnership) hanno accolto favorevolmente il manifestato cambio di rotta di Trump sul patto commerciale, ma allo stesso tempo hanno sottolineato l’intenzione di non rinegoziare nuovamente il patto del Pacifico. Toshimitsu Motegi, il ministro giapponese che ha in carico del Tpp, vede difficile “rinegoziare o cambiare” l’accordo, che definisce “equilibrato”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche il ministro dell’Industria e del Commercio Internazionale della Malaysia, Mustapa Mohamed, secondo cui una rinegoziazione “altererebbe l’equilibrio o i vantaggi delle parti”. Ancora più esplicito il giudizio del ministro del Commercio australiano. “Accogliamo il ritorno al tavolo degli Stati Uniti”, ha detto Steve Ciobo, “ma non vedo alcun desiderio complessivo per qualsiasi rinegoziazione materiale del Tpp-11”. Le nazioni che oggi compongono il patto del Pacifico contano, senza gli Usa, per il 13% del prodotto mondiale lordo e per il 14% delle esportazioni globali.
Da Pechino non sono arrivati commenti ufficiali immediati al possibile cambio di rotta dell’amministrazione Trump sul Tpp, anche se gli esperti cinesi rimangono diffidenti sulle intenzioni del presidente Usa. Il Tpp, che fin dall’inizio escludeva la Cina, era malvisto da Pechino, che all’alleanza del Pacifico contrappone la Regional Comprehensive Economic Partnership, con sedici Paesi: i dieci del sud-est asiatico, più Giappone, Australia, India, Corea del Sud e Nuova Zelanda e la Cina stessa (e senza gli Usa). Il Tpp, ha spiegato al South China Morning Post un ex consigliere del consolato cinese a New York, He Weiwen, “è uno strumento per il riequilibrio nell’Asia-Pacifico degli Stati Uniti, cosa che non piace alla Cina”.
Nessun segnale apparente di un riavvicinamento neppure dai toni distesi utilizzati da Trump in un incontro con i governatori repubblicani degli Stati agricoli. “Ora stiamo davvero rinegoziando e penso che ci tratteranno in maniera veramente giusta”, aveva detto Trump nella giornata di giovedì scorso, riferendosi alla Cina. Solo pochi giorni prima, il Ministero degli Esteri di Pechino aveva ribadito un’opinione già espressa dal Ministero del Commercio, e cioè che non sono in corso negoziati con gli Usa, con i quali è “impossibile” trattare in questa fase.
L’avversione cinese al protezionismo e all’unilateralismo nel commercio è stato ribadito, nelle scorse ore, dallo stesso ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, al suo omologo giapponese, Taro Kono, durante la prima visita in Giappone di un ministro degli Esteri cinese dal 2009, e successivamente anche al primo ministro, Shinzo Abe, che da domani sarà in Florida per incontrare Trump a Mar-a-Lago. Mentre Cina e Stati Uniti appaiono su posizioni sempre più distanti nella disputa commerciale che combattono a colpi di annunci di dazi, Pechino sembra cercare un riavvicinamento con l’altra grande economia asiatica, cominciato già da tempo, con piccoli segnali di distensione nei rapporti, segnati da anni di crisi per le dispute di sovranità nel Mare Cinese Orientale.