Pechino, 6 dic.- "Dateci i nostri soldi". Un coro di slogan si alza dal cortile dell'azienda di componentistica di Shanghai dove gli operai hanno incrociato le braccia per il settimo giorno. No al trasferimento degli impianti, no al licenziamento senza compenso e maggiore chiarezza: questo quello che chiedono da giorni i lavoratori – perlopiù donne – della Hi-P International. Secondo quanto riferiscono i media presenti sul posto, martedì si è assistito a diversi momenti di tensione tra le centinaia di lavoratori che circondano lo stabilimento e i dirigenti dell'azienda, mentre diversi colletti blu si sono inginocchiati davanti ai cancelli della fabbrica per impedire il passaggio ai camion che trasportavano la produzione giornaliera. Almeno dodici tra loro sono stati arrestati, e un'ottantina di operai ha presentato una petizione invocando l'intervento delle autorità locali contro la dirigenza della società contro la rilocalizzazione.
Localizzata nel distretto industriale di Pudong, l'azienda di Singapore che fornisce componentistica per colossi dell'elettronica come Apple, Motorola e Hewlett-Packard sarà trasferita a marzo a Suzhou a un centinaio di chilometri da Shanghai, nella vicina provincia dell'Anhui. Non solo. Secondo quanto riferito dagli operai, i dirigenti avrebbero già deciso di licenziare parte del personale senza preavviso e senza un corrispettivo economico per assumere nuove persone a Suzhou. Immediata la reazione dei lavoratori che da mercoledì scorso ogni mattina si riversano fuori dai cancelli della fabbrica paralizzando parte della produzione per rivendicare i propri diritti.
Lunedì dopo sei ore di colloquio il primo tentativo di dialogo tra i rappresentanti dei lavoratori e i vertici dell'azienda si è risolto in un fallimento. Per placare i lavoratori 'ribelli' i responsabili di Hi-P hanno messo sul tavolo delle trattative una navetta dell'azienda destinata al trasporto quotidiano degli operai dalla vecchia alla nuova sede. Proposta subito rigettata dai lavoratori. "Recarsi a Suzhou in autobus significherebbe viaggiare per 1 ora e mezza ogni giorno. Facciamo turni anche di 20 ore e se dovessimo pendolare non avremmo più tempo per il resto" spiega un'operaia proveniente dal Sichuan. "E' impossibile, a volte i nostri straordinari durano quanto un'intera giornata lavorativa" le fa eco un ragazzo sulla trentina. "La maggior parte di noi – ha poi continuato la donna – lavorano in quest'azienda da molti anni perciò dovremmo essere ben compensati se decidessimo di rescindere il nostro contratto".
Dai piano alti della compagnia dicono di avere le mani legate. "Non abbiamo alternative – ha dichiarato ieri il presidente di Hi-P Yao Hsiao Tung-, dobbiamo trasferire l'azienda. Il governo ha deciso che la zona dovrà essere trasformata da industriale a commerciale. Risolveremo questa situazione nel migliore dei modi e secondo quanto previsto dalla legge". Poi il presidente ha smentito le voci sui licenziamenti: "Non lasceremo nessuno a casa. Anzi, abbiamo intenzione di assumere altre persone perché la compagnia è in fase di crescita". Quanto al disagio che il trasferimento porterà ai dipendenti, Yao ha dichiarato senza scendere nei dettagli: "Se alcuni operai non vorranno seguire l'azienda, saremo lieti di assisterli nei loro problemi lavorativi".
Proteste nella fabbrica di scarpe che rifornisce Adidas e Nike a dongguang, in quella di reggiseni e di componenti elettronici a Shenzhen: quello di Shanghai è solo l'ultimo di una raffica di scioperi che negli ultimi mesi sta agitando le fabbriche cinesi del Guangdong, la fucina manifatturiera nella Cina meridionale. Ma cosa sta succedendo in realtà?
"Si può parlare dello sviluppo di una coscienza di classe tra i lavoratori migranti in Cina, ma è ancora a un livello embrionale. Al momento credo che i lavoratori percepiscano ancora sé stessi a livello di singola fabbrica, perché tutti gli operai hanno la stessa posizione, di solito posseggono lo stesso background e portano avanti gli stessi interessi" spiega ad AgiChina 24 Geoffrey Crothall, attivista e direttore del sito in inglese dell'ONG China Labour Bulletin, con sede a Hong Kong. E all'embrionale coscienza di classe si aggiunge poi, come di rito, la necessità: "Penso che l'inflazione giochi un ruolo molto importante nel motivare i lavoratori a chiedere salari più alti, perché molti operatori hanno ancora stipendi base, oppure che non vanno al di là di quelli minimi"( questo articolo)
di Sonia Montrella e Antonio Talia
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