Pechino, 07 ott. - La stop ai lavori della diga di Myitsone imposto dal governo birmano poteva considerarsi alla stregua di un alto tradimento nei confronti dell'Alleato, la Cina. Ma le cose in politica non sono mai quello che sembrano e forse la mossa inattesa del generale Thein Sein – capo delle forze armate del Myanmar e massima carica istituzionale dello stato del sud-est asiatico - potrebbe essere semplicemente un guizzo coraggioso e geniale dalle ripercussioni minime.
Il progetto della diga Myitsone, siglato nel 2005 dal generale Than Shwe e dal presidente Hu Jintao, prevedeva di allagare 766 chilometri quadrati di terra fertile ed evacuare le migliaia di residenti nelle terre dove il fiume Mall ed il N'Mai si uniscono formando il principale corso d'acqua del Myanmar, l'Irrawaddy.
La realizzazione dell'opera affidata alla China Power Investment Corp. - una dei cinque colossi energetici controllati dal governo di Pechino – era parte di un piano generale di costruzione del valore di 20 miliardi di dollari per la realizzazione di sette dighe cinesi, ai quali vanno aggiunti i 100 milioni di dollari prestati dal governo cinese alla dittatura militare birmana.
Comprensibilmente la popolazione locale non ha gradito molto l'accordo raggiunto. Non diversamente dalle dighe costruite sul territorio cinese, i lavori prevedono lo spostamento coatto di migliaia di contadini che difficilmente potranno giovare delle risorse energetiche prodotte dalla diga, da realizzarsi tra l'altro in una zona particolarmente delicata per gli equilibri idrici del paese.
Lo scorso luglio il Burma Rivers Network aveva pubblicato un articolo denunciando l'inutilità, dal punto di vista birmano, della costruzione di un sistema idroelettrico così imponente, buttando ulteriore benzina sul fuoco del malcontento che un mese prima era sfociato negli scontri violenti tra l'esercito birmano e la popolazione locale della regione di Kachin. I 6mila watt di potenza dell'intero sistema energetico sarebbero però stati destinati non al consumo interno, bensì venduti in gran parte proprio alla Repubblica popolare cinese, che in questa fase di espansione ha un disperato bisogno di elettricità pulita e non problematica, quindi presa a casa d'altri.
Dall'altro lato il nuovo governo Thein Sein, insediatosi a seguito di elezioni approssimative ma con una grande aspirazione di guadagnare consensi anche nel mondo democratico, si trova tra due fuochi: assecondare le richieste di Pechino, potatrici di soldi e malcontento, o guadagnarsi l'appoggio del popolo birmano e dell'Occidente smarcandosi da un'alleanza redditizia ma complicata in sede internazionale?
Con l'annuncio di venerdì 30 settembre il governo birmano sembrava aver optato per la seconda. Thein Sein si era espresso chiaramente: la diga di Myitsone non si farà, il governo sta dalla parte del popolo. Il generale ha avuto però la premura di specificare che la decisione, come naturale, varrà – salvo una non improbabile retromarcia – fino alla fine del suo mandato, ovvero al 2015.
La notizia ha subito suscitato applausi sia dalle opposizioni interne, Aung San Suu Kyi in testa, sia dalla comunità internazionale, che leggeva nel comunicato della giunta militare birmana la sincera volontà di dare inizio ad una svolta democratica concreta.
Ma Pechino, seppur sorpresa, non si è fatta trovare impreparata. Il 3 ottobre Lu Qizhou, presidente della China Power Investment Corp., ha rilasciato un'intervista fiume all'agenzia di stampa governativa Xinhua, spiegando di essere rimasto "stupito" dal comunicato di Thein Sein e di aver appreso la notizia del blocco dei lavori dalla stampa, non da una comunicazione ufficiale, ricordando tutte le tappe dell'accordo e dell'organizzazione dei lavori che dal 2005 al 2011 avevano sempre incontrato il benestare entusiastico della giunta militare alleata.
Parallelamente la China National Petroleum Corporation, sempre statale, ha deciso di donare 1,82 milioni di dollari alle quattro regioni birmane dove si stanno costruendo ora gasdotti ed oleodotti che connetteranno il golfo del Bengala alla Repubblica popolare: la donazione verrà utilizzata per costruire otto scuole, tentando di rendere l'invasione del progresso cinese un po' meno dolorosa alle popolazioni locali.
Che si faccia o meno la diga della discordia – la fine dei lavori era prevista per il 2019, ora chissà – tra le righe della stampa rimane la mossa politica ottima di Thein Sein, che in una settimana è rimbalzato sui media mondiali come coraggioso difensore del popolo birmano e speranza per un Myanmar democratico, da affiancare però alla pragmatica reazione cinese.
La distanza tra la discordia e l'armonia, per la Cina, rimane una mera questione di prezzo.
di Matteo Miavaldi
©Riproduzione riservata