La Cina ha tagliato le forniture di greggio verso la Corea del Nord a un livello ben superiore al tetto stabilito dalle sanzioni promosse dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, costringendo Kim a cambiare strategia diplomatica. In altre parole, sono stati i rubinetti chiusi di Xi Jinping e non le pressioni di Donald Trump a portare Kim Jong-un al tavolo delle trattative. È questo il quadro che emerge dai dati ufficiali sulle esportazioni cinesi analizzati dal Financial Times.
Dopo l’ultimo test nucleare del 3 settembre scorso, Pechino aveva mostrato una linea dura verso la Corea del Nord, imponendo, già poche settimane dopo, un tetto alle esportazioni di greggio verso Pyongyang e la chiusura entro quattro mesi di tutte le imprese nord-coreane, anche in joint-venture con gruppi locali.
Una decisione opposta alla tradizionale cautela del governo cinese che non vuole il collasso del regime nordcoreano per il timore di dover gestire un’ondata di profughi al confine e truppe americane alle porte di casa, e che ha sempre promosso la stabilità della penisola coreana, respingendo la pressioni della Casa Bianca a imporre maggiori restrizioni economiche, e ribadendo la linea della doppia sospensione (dei test nucleari e delle esercitazioni congiunte Washington-Seul). L'irrigidimento delle sanzioni ha messo in crisi il regime nordcoreano: la Cina è il maggior partner commerciale della Corea del Nord, la cui economia dipende da Pechino per oltre il 70%.
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I rapporti si erano fatti tesi e il dialogo si era apparentemente chiuso, ma l’adesione alle sanzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha portato Pyongyang a riavvicinarsi alla Cina, che sembrava essere stata marginalizzata rispetto alle prove di disgelo con Corea del Sud e Usa, ma che è invece tornata centrale nelle trattative diplomatiche: martedì scorso Kim Jong-Un ha incontrato a Pechino il presidente cinese, Xi Jinping. Un incontro “non ufficiale”, come lo ha descritto l’agenzia Xinhua, e tenuto segreto fino al ritorno di Kim in Corea del Nord: il primo viaggio all'estero del leader nordcoreano da quando ha assunto le redini del Paese dopo la morte del padre, Kim Jong-il, nel 2011. All’indomani dell’annuncio del terzo summit inter-coreano, che si terrà il 27 aprile, il secondo impegno diplomatico di alto livello per Kim Jong-un, e in vista del meno certo summit con Donald Trump, il Financial Times scrive che i dati ufficiali cinesi evidenziano un taglio delle esportazioni di greggio ben superiore al tetto stipulato nell’ambito delle sanzioni imposte dall'Onu: si stima dell’89% in più.
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In altre parole, dietro alla ritrovata amicizia tra Xi e Kim, ci sono state fortissime pressioni da parte cinese che hanno spinto la Corea del Nord a cambiare strategia, e a considerare tema di massima urgenza accettare l’invito di Xi a incontrarsi in gran segreto in vista di un ritorno al tavolo delle trattative sul tema della denuclearizzazione (che resta un tema difficilissimo).
“La Cina ha di fatto chiuso la fornitura di petrolio verso la Corea del Nord”, ha detto Alex Wolf, economista di Aberden Standard Investment ed ex diplomatico statunitense in Cina. “Dai dati disponibili emerge come l’economia nordcoreana sia sotto una fortissima pressione e questo ha senza dubbio contribuito a portare Kim a cambiare politica”.
I dati
Nei mesi di gennaio e di febbraio, la Cina ha esportato in Corea del Nord 175,2 tonnellate di greggio in media ogni mese, appena l’1,3% dei 13.552 tonnellate esportate nella prima metà del 2017.
Stessa cosa per quanto riguarda l’export di carbone che è stato sostanzialmente azzerato da dicembre a febbraio, mentre nella prima metà del 2017 ogni mese in media erano state spedite 8.627 tonnellate. Le esportazioni di acciaio sono invece passate da 15.110 tonnellate nella prima metà del 2017 a una media mensile di 257 nei primi due mesi del 2018. Anche la vendita di veicoli a motore si è sostanzialmente azzerata: un solo vettore risulta venduto nel mese di febbraio.
Massima pressione
I dati ufficiali cinesi sono noti per essere poco accurati e gonfiati. Ma gli analisti ritengono che sarebbe irrealistico attribuire un calo così drastico delle esportazioni verso il regime di Pyongyang a una manipolazione svolta a regola d’arte dai funzionari. Si tratta di dati che evidenziano in modo netto come molto probabilmente sia stata la massima pressione cinese, e non americana, come rivendicato da Donald Trump, a stanare Kim Jong-un. Un funzionario cinese citato come fonte anonima dal quotidiano britannico, prima che Kim sparigliasse le carte in campo diplomatico, aveva parlato della volontà di Pechino di portare Pyongyang al tavolo delle trattative. L’obiettivo di Kim non è l’aggressione ma la garanzia di sopravvivenza per il regime, rammentava il funzionario, che attribuiva la colpa del fallimento dei precedenti negoziati all’inflessibilità americana nelle trattative. “La Cina – ha sottolineato Wolf – vuole un ruolo centrale nella risoluzione della crisi, ma vuole giocarlo alle sue condizioni”.
Il gioco diplomatico di Kim
Dopo il test nucleare dello scorso settembre, Pyongyang ha avviato una serie di iniziative diplomatiche. La presenza della sorella minore Kim Yo-jong, alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi Invernali di Pyeongchang, in Corea del Sud, il 9 febbraio scorso, ha sancito il disgelo olimpico tra le due Coree. Kim ha poi invitato a sorpresa Donald Trump al dialogo, lo storico faccia a faccia – “Kim non vede l’ora di vedermi” ha twittato il presidente americano dopo il vertice di Pechino - potrebbe avvenire entro la fine di maggio. Ieri è poi arrivata la conferma del vertice Kim-Moon.
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Cosa ha spinto Kim a un apparente cambio di strategia? Le ipotesi in campo sono diverse. Per alcuni analisti Kim ha raggiunto i suoi obiettivi missilistici e nucleari e ora vuole che la Corea del Nord venga riconosciuta come potenza nucleare. Altri sono convinti che Kim stia cercando il disgelo con Seul per indebolire il sistema di alleanze degli Stati Uniti (Trump ha però incassato l’intesa sui dazi con Seul dopo il summit di Pechino).