La presa di Mosul da parte delle forze irachene, sostenute da una coalizione estremamente eterogenea (Forze di sicurezza irachene, peshmerga curdi, milizie sciite, combattenti delle tribù arabo-sunnite locali e coalizione internazionale a guida statunitense) è la più grossa operazione militare in Iraq dopo l'invasione americana che nel 2003 portò al rovesciamento di Saddam Hussein. Da oggi parte una nuova fase, quella della ricerca di nuovi equilibri tra le forze vincitrici. Forze che potrebbero divenire centrifughe, se lasciate fuori controllo. "Ciò che rende questo momento un punto di svolta non è tanto la vittoria militare della coalizione", scrive l'Ispi in un dossier dedicato ai nuovi scenari, "quanto il fatto che esso rappresenta la fine di un capitolo di storia istituzionale durato circa un decennio: quello dell'Iraq post-invasione americana". Nuovi problemi emergono: "la frammentazione delle forze di sicurezza e della politica interna a Baghdad, così come gli sforzi per mantenere unito l'Iraq nonostante le divisioni interne e le pressioni dei paesi limitrofi". Anche se "un nuovo ordine politico che ha preso forma negli anni della battaglia" contro l'Isis.
Un nuovo ordine che stenta a emergere
La prima fonte di preoccupazione è costituita, secondo l'Ispi, "dalla crisi della politica irachena, che si manifesta nella difficile coesistenza tra una classe politica ormai in declino, arrivata al potere dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, e le nuove figure emergenti dal conflitto contro Daesh". Un sostanziale vuoto in cui si sono inserite "reti di potere informale, che si affiancano alle istituzioni dello Stato, talvolta sostituendole". Infine "si va delineando una nuova relazione tra stato centrale e territorio e nuove modalità con cui il nucleo del potere centrale tenta di affermare il suo controllo sul territorio". Ma non è detto che ci riesca.
Anche perche' "ciò che permetteva alla stato centrale di esercitare la sua sovranità non erano le istituzioni pubbliche attraverso le loro articolazioni periferiche, ma le reti clientelari legate alle diverse personalita' politiche che da Baghdad dispiegavano la loro influenza su tutto il territorio". Un sistema che in passato ha aiutato proprio la nascita e l'affermazione dell'Isis.
L'ascesa di un'élite militare
Durante il conflitto "i comandanti miliziani, grazie alle reti di relazioni create in questo periodo, hanno avuto accesso a finanziamenti privati, dando vita a imprese private e organizzazioni non-governative di assistenza, attraverso le quali riescono a gestire e influenzare la popolazione a livello locale, in parte sostituendosi alle istituzioni.
La classe politica tradizionale, sottolinea l'Ispi, "si trova relegata a Baghdad, con una diminuita capacità di mobilitare il sostegno popolare". Inoltre "gli anni del post-invasione americana sono caratterizzati da una netta distinzione tra classe politica - che deteneva le cariche più alte dello Stato e il comando delle forze di sicurezza - e ufficiali dell'esercito, le cui funzioni erano strettamente limitate all'ambito militare". Ma "la battaglia contro l'Isis rimette in questione la netta distinzione tra sfera civile e militare, promuovendo come nuovi protagonisti della scena politica irachena figure che hanno ricevuto una formazione militare o militari (come quelli delle celebri forze speciali del contro-terrorismo) che, in futuro, potrebbero nutrire aspirazioni politiche". Tanto più che "queste nuove figure godono di una popolarità incomparabile rispetto ai politici di Baghdad, hanno accesso a tutto il territorio nazionale, dispongono di forze armate e intelligence e potrebbero acquisire ruoli importanti, non necessariamente spingendosi al comando del paese ma sostenendo una fazione politica piuttosto che un'altra".
Un Paese paralizzato
Non deve essere sottovalutato il fatto che "la guerra all'Isis e il pericolo (reale o percepito) dell'incombente avanzata dei militanti hanno ridotto la mobilità all'interno del Paese e isolato i centri urbani iracheni gli uni dagli altri dispiegando forze di sicurezza alle frontiere di città e villaggi". Di conseguenza "è il controllo del sistema viario e delle infrastrutture (soprattutto autostrade e aeroporti) la premessa per arrivare a controllare le istituzioni del governo locale". In questo quadro "le forze militari o miliziane che gestiscono l'accesso ai centri abitati sono nella posizione di prevaricare sia l'amministrazione civile che le forze di polizia locale, facilitando o negando il ritorno ai rifugiati, l'accesso e la mobilità ai residenti e persino a agli organismi internazionali impegnati nella ricostruzione del post-Isis". Insomma, "il controllo strategico delle vie d'accesso è diventata la vera premessa di ogni esercizio di sovranità su porzioni di territorio".
Le troppe voci degli sciiti
"Con la leadership politica arabo-sunnita frammentata e quella curda distratta dal crescente indipendentismo, il blocco sciita è realisticamente l'attore principale per determinare il successo o il fallimento di qualsiasi piano di riconciliazione nazionale" rileva l'Ispi.
Nel nome proprio della riconciliazione "Ammar al-Hakim si è fatto portavoce di un ambizioso progetto: l''Accordo storico'. L'iniziativa, promossa a livello nazionale ed internazionale, dovrebbe essere espressione dell'Alleanza nazionale irachena (Ina), l'ampia ma non sempre coesa coalizione sciita che controlla il maggior numero di seggi nel parlamento e di cui al-Hakim è presidente dallo scorso settembre".
Quasi contemporaneamente però "Muqtada al-Sadr ha pubblicamente annunciato nel febbraio del scorso una roadmap che pare a tutti gli effetti un piano alternativo a quello di al-Hakim". Al-Sadr e il suo blocco politico, al-Ahrar, solo recentemente sono tornati a far parte dell'Ina, dopo averne boicottato i lavori dalla primavera del 2016. "Entrambi importanti cariche religiose in Iraq, al-Hakim e al-Sadr sono espressione di forze politiche diametralmente opposte: partito di governo il primo; partito di protesta il secondo, con il suo leader, al-Sadr, capace di mobilitare le masse come ha ripetutamente dimostrato nelle strade di Baghdad".
Nell'Alleanza nazionale irachena esiste poi un terzo polo: il partito Dawa. "Tra i suoi leader, Nuri al-Maliki non è certo un candidato credibile per il successo di un processo di riconciliazione nazionale. Nonostante le credenziali nazionalistiche del partito Dawa tra una parte dell'elettorato sciita, l'ex premier al-Maliki è associato ai giorni bui dell'avanzata dello Stato islamico. Haider al-Abadi, invece, attuale primo ministro ed espressione dello stesso partito, puo' vantare il fatto di aver guidato il paese fuori dalla crisi del 2014".
Un altro polo nel blocco sciita può rappresentare un'ulteriore sfida: la leadership delle principali milizie all'interno delle Hashd al-Shaabi, le Unità di mobilitazione popolare, create per fermare l'avanzata dello Stato islamico, ha infatti acquisito grande legittimità popolare e rafforzato un senso di nazionalismo iracheno, anche se in chiave sciita.
Le incertezze e le paure dei sunniti
La vittoria sul Daesh rischia di esacerbare le tensioni politiche, etniche e settarie tra i suoi numerosi padri; dall'altro i sunniti iracheni, liberati dall'arcigno patrigno jihadista, sono comunque orfani di una effettiva guida politica", scrive l'Ispi nel suo dossier. Infatti "la comunità sunnita sembra essersi chiusa in se stessa, senza però trovare una coesione tra la sua identità tribale, politica, baathista e religiosa. Il tutto in un contesto caratterizzato da scarsa sicurezza e stabilità politica, assenza e diffidenza dello stato, dilagare di milizie autoreferenti, mancanza di progetti di sviluppo economico e una pervasiva mentalità localistica e tribale. Stretti tra le pressioni curde e l'intransigenza sciita, per ora il governo Abadi rappresenta l'unica alternativa alla continuazione della insurgency sunnita".