Nel giorno in cui Donald Trump diventa ufficialmente il nuovo presidente degli Stati Uniti, Pechino annuncia i dati sulla crescita economica del 2016: 6,7%, il tasso più alto al mondo, seppur il più basso degli ultimi 26 anni per il gigante asiatico. Alle incerte conseguenze dell’avvento di Trump per l’Asia, la Cina risponde con la solidità della propria crescita economica. Trump preoccupa e innervosisce la Cina soprattutto per il ritorno al protezionismo. Dopo le polemiche che hanno segnato le ultime due settimane, Pechino segue l’Inauguration Day abbassando i toni. Cina e Usa, aveva sottolineato il 19 gennaio la portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying, “dovrebbero essere amici e partner piuttosto che oppositori o nemici”. Durante la campagna elettorale, Donald Trump ha minacciato di imporre dazi del 45% sulle merci cinesi, presagendo un inasprimento dei rapporti tra le due sponde del Pacifico sul commercio. Se questa promessa venisse mantenuta, quale potrebbe essere l’impatto sull’ economia cinese? Le minacce di una guerra commerciale che arrivano da Washington sono solo “il bluff di una tigre di carta”, come scrive oggi il quotidiano China Daily, o c’è qualcosa di più?
I rischi di una guerra commerciale da 520 miliardi
Secondo i calcoli del Ministero del Commercio di Pechino, l’interscambio commerciale tra Cina e Stati Uniti ha raggiunto nel 2016 quota 519,6 miliardi di dollari . Le esportazioni cinesi sono calate del 7,7%, e le importazioni del 5,5% (nei dati in dollari): pur rimanendo in attivo il saldo della bilancia commerciale, a +509,6 miliardi di dollari, il timore di funzionari e analisti cinesi è che nel 2017 i dati possano peggiorare con l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump. L’applicazione di dazi da parte degli Stati Uniti alle importazioni cinesi, secondo le previsioni di Kevin Lai, capo del settore ricerche per l’Asia di Daiwa Capital Markets, potrebbe arrivare a produrre un crollo dell’export cinese diretto negli Usa dell’87%, e in generale il commercio estero della Cina potrebbe subire un calo del 9%, nel caso di dazi commerciali statunitensi. Uno scontro sul commercio tra Pechino e Washington avrebbe ripercussioni anche sul mercato del lavoro in Cina, dove circa venti milioni di persone, secondo stime di Mizuho Securities, producono beni che finiscono sul mercato statunitense.
Donald Trump giura come presidente degli Stati Uniti d'America
Non solo. Per Pechino ci potrebbe essere anche il rischio della perdita dello status di superpotenza commerciale, soprattutto nel caso in cui anche altri Paesi intendano seguire le orme di Trump. Un eventuale scontro potrebbe avere come conseguenza anche un ritirata degli investimenti cinesi negli Stati Uniti, che secondo le prime stime si sono triplicati dal 2015 al 2016, raggiungendo quota 46,5 miliardi di dollari lo scorso anno. "Tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare”, ha detto ad AgiChina Enrico Fardella, professore di Storia delle relazioni internazionali alla Peking University e ricercatore del Torino World Affairs Institute. “Il rischio di una guerra commerciale non è da sottovalutare – ha detto l’analista - ma eventuali misure protezionistiche non sarebbero ad ampio raggio per due motivi: uno, la legislazione americana non consente al presidente di imporre dazi superiori al 15% a meno che egli non dichiari lo stato d'emergenza; due, eventuali dazi del 45% sulle merci cinesi danneggerebbero i consumatori (senza dimenticare che le supply chain sono troppo complesse per essere smantellate con un tratto di penna)". I dazi non sono da escludere ma "prenderebbero di mira acciaio e alluminio, trovando d'accordo l'Europa".
Pechino ha a più riprese espresso il proprio disappunto sullo scenario di una guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti. Al ritorno del protezionismo, Xi Jinping il 17 gennaio ha lanciato un duro attacco dal palco del World Economic Forum, segnando l’inizio di una nuova era nella politica estera cinese, e non solo per l’assenza di Trump a Davos. “Nessuno emergerà vincitore in una guerra commerciale” e “proseguire il protezionismo è come rinchiudersi in una stanza buia”: Xi si è presentato come l’alfiere della globalizzazione, “un vasto mare da cui non si può fuggire”. Infine, un messaggio indiretto al presidente eletto: la Cina non aumenterà la propria competitività svalutando il renminbi. E a margine, un messaggio al vice presidente uscente degli Stati Uniti, Joe Biden: Cina e Stati Uniti hanno bisogno di sforzi congiunti per costruire una relazione "cooperativa, stabile e di lungo termine" in futuro, che possa soddisfare gli interessi di entrambe le parti e del mondo.
Partner, non nemici. Perché un divorzio sarebbe un disastro per “il mondo nel ventunesimo secolo”. Qual è l’idea di mondo globalizzato proposta dalla Cina? In apparenza non si tratta di una sfida all’egemonia americana - il primo paese ad avvantaggiarsi dell’attuale ordine mondiale è proprio la Cina - ma di una nuova visione delle relazioni che Pechino intende intraprendere con altri paesi. L’ha illustrata Xi Jinping a Givevra, nel discorso pronunciato all’Onu il 19 gennaio: un mondo senza armi nucleari e un nuovo modello di relazioni con gli Stati Uniti (no al protezionismo, impegno sul clima e multilateralismo), con la Russia di Putin (partnership strategica di coordinamento), e con gli altri Paesi e i Brics (partnership per la pace, la crescita e le riforme).
Cina e Usa oltre lo Stretto (di Taiwan)
E’ indubbio che Hillary Clinton fosse la candidata preferita dei cinesi, se non altro avrebbe dato un segnale di continuità. La vittoria di Trump ha avuto invece un effetto destabilizzante: in campagna elettorale aveva accusato Pechino di manipolare la valuta per avvantaggiarsi nelle esportazioni. La telefonata con Xi Jinping del 16 novembre scorso ha avuto un effetto placebo nelle tensioni tra le due sponde del Pacifico: “La cooperazione è l’unica via possibile” era stato il messaggio scambiato tra i due leader . Nel frattempo anche i giornali cinesi hanno rivisto il giudizio su Trump, inizialmente apprezzato per il piglio da businessman e per la mentalità lontana dagli schemi da “guerra Fredda”. Tutto è però cambiato dopo il 2 dicembre scorso, quando il presidente eletto ha ricevuto la telefonata dalla leader di Taiwan, Tsai-Ing Wen, mettendo a repentaglio la politica dell’Unica Cina, che per Pechino è un principio inattaccabile: la Cina al mondo è solo una e Taiwan ne è parte integrante. I successivi tweet del presidente eletto non hanno fatto atto che esacerbare il clima di tensione. Agguerrita la stampa di Pechino, soprattutto il tabloid Global Times che lo ha più volte definito il presidente eletto “ignorante” in politica estera e il China Daily, che lunedì scorso ha scritto in un editoriale che Trump “gioca con il fuoco” sulla questione di Taiwan e la Cina è pronta a “togliersi i guanti” per affrontare il nuovo inquilino della Casa Bianca.
Xi Jinping critica la politica protezionista di Donald Trump
Taiwan non è l’unico fronte caldo in politica estera. L’altro è il Mar Cinese Meridionale. Il nuovo segretario di Stato designato da Trump, Rex Tillerson, in un’audizione al Senato giorni fa ha definito la militarizzazione di Pechino delle isole contese alla presa della Crimea da parte della Russia. La risposta di Pechino non si è fatta attendere ma è stata controllata: il portavoce del Ministero degli Esteri, Lu Kang, ha spiegato che "la Cina, come gli Stati Uniti, ha il pieno diritto nel suo territorio di condurre normali attività". Ha invece gettato benzina sul fuoco la stampa di Pechino, ormai sul piede di guerra: “o Tillerson bluffa o prepara guerra” ha scritto il Global Times. Che gli uomini dello staff di Trump non siano graditi a Pechino è del resto cosa nota: il più temuto è Peter Navarro, che sarà a capo del National Trade Council, e la cui visione della Cina è chiara a tutti essendo contenuta nei suoi libri dai titoli eloquenti, come “Death by China” e “Crouching Tiger: what China’s militarism means for the world”: per Navarro la Cina è una minaccia strategica. Di più: un competitor commerciale aggressivo che attraverso la concorrenza sleale e la manipolazione della sua moneta, accumula risorse per sviluppare il proprio esercito e la propria marina con l’obiettivo di sfidare l’egemonia americana nella regione e nel mondo. Per contrastarlo, Trump aveva annunciato di voler imporre dazi del 45% su tutte le importazioni cinesi: il primo passo verso l’American First che prevede lo smantellamento dei trattati di libero scambio stipulati dall’amministrazione Obama e la loro sostituzioni con una politica più protezionista.
Non tutto quello che arriva a Pechino dall’America di Trump è negativo. Il preannunciato ritiro degli Usa dal TPP (Trans Pacific Partnership, che comprende Stati Uniti e 11 Paesi dell’Area Asia-Pacifico, ma esclude la Cina) è stato particolarmente apprezzato da Pechino, che a assicura di promuovere l'integrazione dell'area Asia-Pacifico spingendo su un’altra alleanza regionale: la Rcep (Regional Comprehensive Economic Partnership) che comprende oltre alla Cina, il Giappone, la Corea del Sud, l'Australia, la Nuova Zelanda, l'India e i Paesi del sud-est asiatico, ma esclude gli Stati Uniti. La Cina non poteva aspettare regalo migliore sul piano del commercio globale. Ma attenzione: "La decisione di Trump non deve trarre in inganno - ha detto Fardella -. Si tratta di una revisione tattica, seppur profonda, della proiezione americana verso l'Asia-Pacifico. Ma la strategia resta la stessa: impedire l'emergere di un'altra potenza capace di sfidare la supremazia globale degli Stati Uniti". Nei primi mesi dell'amministrazione Trump potrebbe presentarsi uno scenario caratterizzato, da un alto, da un riallineamento di Stati Uniti e Europa sul tema della concorrenza sleale cinese, che avrà come simbolo i dazi sull'acciaio e l'alluminio; dall'altro, dal rilancio di un nuovo Pivot in Asia: " Il Pivot dell'amministrazione Obama in Asia aveva per lo più una dimensione economica con il TPP al suo centro – ha aggiunto Fardella -. Il conflitto con la Russia in Ucraina e in Medio Oriente ne limitava tuttavia lo sviluppo e la sua proiezione militare. Ma se Trump riuscisse a ricucire i rapporti con Mosca. ciò potrebbe consentire un nuovo rilancio, anche militare, alla presenza strategica degli Stati Uniti in Asia".
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