Washington chiude, Pechino apre. La Cina mette in campo misure di segno opposto in risposta al rinnovato protezionismo americano: il Consiglio di Stato, presieduto dal premier Li Keqiang, ha annunciato che dal 1 luglio verranno tagliati i dazi sull’importazione di una serie di beni di consumo.
Abbigliamento, lavatrici, cosmetici: il ventaglio è ampio. Non solo: in arrivo anche la nuova black list degli investimenti stranieri, che secondo il Financial Times risulterà di gran lunga sfoltita, allentando le restrizioni in settori tradizionalmente protetti: energia e trasporti in primis. Si tratta di un doppio segnale di apertura al commercio globale, che indica finanche la necessità di modernizzare l’industria con l’ingresso alla concorrenza.
La lista dei tagli
- I balzelli su abiti e abbigliamento sportivo saranno più che dimezzati, passando dal 15,9% al 7,1%;
- i dazi su utensili da cucina, lavatrici e frigoriferi, verranno tagliati dal 20,5% all’8%;
- le tariffe sui alimenti lavorati (pesce e acqua minerali) caleranno dal 15,2% al 6,9%;
- i balzelli su cosmetici e prodotti sanitari scenderanno dall’8,4% al 2,9%.
L’annuncio arriva dopo l’ultima accelerazione dell’amministrazione Usa targata Donald Trump sui dazi che prevede entro il 15 giugno prossimo l’introduzione di tariffe al 25% sull’import di beni tecnologici dalla Cina per un valore complessivo di cinquanta miliardi di dollari dalla Cina, e restrizioni agli investimenti cinesi nell’high-tech Usa entro il prossimo 30 giugno. Una mossa con cui la Casa Bianca ha rotto la tregua commerciale raggiunta il 19 maggio a Washington. Il pomo della discordia è la tutela della proprietà intellettuale:
“Gli Stati Uniti - si legge nella nota della Casa Bianca - continueranno a impegnarsi per fermarne il trasferimento anti-economico in Cina e per aprire il mercato cinese e chiedono alla Cina di rimuovere tutte le sue molteplici barriere commerciali, anche quelle non tariffarie, che rendono difficile e non equo fare affari lì”.
La Cina è stata colta di sorpresa dall’accelerazione di Trump; ha ribadito che proteggerà i propri interessi mentre affila le armi. Pechino, per bocca del portavoce del ministero del Commercio, Gao feng, chiede agli Stati Uniti di mantenere la parola e ribadisce la volontà di incontrarsi con gli Stati Uniti “a metà strada”.
“Riteniamo - ha detto Gao in riferimento alle restrizioni americane - che vadano contro i principi di base dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, e dopo attente valutazioni, penseremo a una risposta di conseguenza”.
All’accordo – ricostruisce il Sole 24 Ore - si era arrivati dopo una lunga offensiva scandita a colpi di dazi e contro-dazi. Il primo a dare fuoco alle polveri era stato il presidente americano, che a marzo scorso aveva minacciato dazi su 50 miliardi di merci importate come rappresaglia contro i presunti furti di tecnologia americana. Pechino aveva risposto con contro-dazi dello stesso valore (colpendo gli agricoltori: base elettorale dell’inquilino della Casa Bianca); a quel punto Trump aveva preso di mira il piano Made in China 2025, minacciando balzelli su altri 100 miliardi di merci cinesi, arrivando a un totale di 150 miliardi (gli Usa esportano in Cina 506 miliardi).
La richiesta americana per scongiurare la ‘trade war’ era che la Cina riducesse il proprio surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti di 200 miliardi di dollari (pari al 60% dei 337 miliardi di avanzo). Una soluzione che però Pechino ha rifiutato. Il comunicato congiunto emerso dai negoziati di Washington appena dieci giorni fa, indicava l’esistenza di un accordo per la riduzione del deficit, senza tuttavia specificare l’ammontare. L’accordo prevedeva la sospensione dei dazi. Non solo: Pechino si impegnava a aumentare le importazioni dagli Stati Uniti (soprattutto su agroalimentare e carbone). Da lì a pochi giorni, la Cina ha annunciato il taglio dei dazi sull’importazione di auto dal 25 al 15% a partire dal 1 luglio.
La grande partita resta sempre quella tra le due Coree
Trump, perso l’iniziale ottimismo, aveva giudicato queste iniziative insufficienti: la tregua, per lui, era solo “all’inizio”. In quel momento era apparso chiaro come il negoziato per evitare la 'trade war' fosse entrato in una nuova fase delicata, sovrapponendosi a quello nucleare con la Corea del Nord.
Il dietrofront, a pochi giorni dall’arrivo a Pechino del segretario al Commercio di Washington, Wilbur Ross (in missione dal 2 al 4 giugno, salvo soprese dell’ultimo minuto), potrebbe essere una mossa tattica per ottenere maggiori concessioni. Oppure un modo per ottenere che Pechino faccia pressioni su Kim, mentre l’emissario del leader nord-coreano è a New York per definire il summit del 12 giugno a Singapore. O ancora: dopo aver stabilito un contatto diretto con Pyongyang, Trump potrebbe essersi smarcato dall’influenza di Pechino, sospettata dal presidente americano di aver sabotato lo storico summit con il dittatore nord-coreano.
Nel frattempo i colloqui vanno avanti. A Pechino è giunta una prima delegazione di funzionari statunitensi, tra cui il sottosegretario all'Agricoltura, Ted McKinney: proprio il settore dei beni agro-alimentari, assieme al settore energetico, sono tra le voci da cui gli Usa si aspettano gli aumenti più consistenti per l'aumento delle importazioni cinesi.
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