Prima è arrivato l’uragano Harvey che ha devastato Texas e Lousiana. Poi Irma, che dopo aver flagellato per giorni i Caraibi, riducendo interi villaggi a un ammasso di macerie, sta per colpire con forza la Florida e la costa della Georgia, provocando un esodo di massa (è arrivato a Cuba). Decine di morti, migliaia di persone sfollate, abitazioni distrutte, danni ingenti. Solo per Harvey, sono stati stimati costi fino a 180 miliardi di dollari.
Una volta che questi fenomeni devastanti sono passati, gli economisti si mettono all’opera. Oltre ai danni, c’è l’economia della ricostruzione da quantificare. Ma questa, in realtà, non porta a un aumento del Pil, sostengono diversi esperti. E spiegano anche il perché.
Lo shock negativo di approvvigionamento
È vero che dopo il passaggio di un uragano ci sono infrastrutture e abitazioni da ricostruire, il che potrebbe far pensare a una occasione per costruttori e indotto. Ma, spiega Caroline Baum su Market Watch, “le distruzioni causate da uragani e allagamenti si qualificano come uno shock negativo di approvvigionamento. I normali canali di produzione e di distribuzione sono distrutti o disturbati. I produttori devono trovare modi meno efficienti (cioè più costosi) per trasportare le loro merci. Il risultato è perdita di guadagno e profitto, e prezzi più alti”.
Chi guarda a questi fenomeni in un’ottica della domanda, pensando che le perdite si traducano in una “riduzione della spesa per beni e servizi” e quindi magari anche “in una certa rilassatezza da parte della Banca centrale”, non considera che “propria questa è la medicina sbagliata”, sostiene lei.
“Gli shock di approvvigionamento riducono la produzione e aumentano i prezzi. I tassi d’interesse più bassi della Federal Reserve colpiscono la domanda, accresceranno la domanda di benzina, tra gli altri beni e servizi, ma non hanno alcun effetto sull'offerta. Un allentamento della politica monetaria in simili circostanze aumenterebbe la domanda per un approvvigionamento già ridotto aumentando ulteriormente i prezzi”.
Questa è una faccia della medaglia. Ma anche nell’ambito delle costruzioni, con i necessari investimenti per ricostruire e sostituire case ed edifici commerciali ed industriali danneggiati, sul lungo periodo la situazione non è molto diversa.
Impulso alla crescita nel breve periodo
Certo, riconosce la Baum, sul breve periodo “dovremmo presto sentire parlare di una spinta alla crescita del Pil”. Ma sul lungo periodo non si vedranno conseguenze espansive sull’economia. “Dopo un disastro naturale, l'avvio nella costruzione di alloggi è destinato ad aumentare, ma non ci sarà alcuna aggiunta alla fornitura di case. Anche la spesa per gli investimenti aumenterà, ma non amplierà il capitale sociale della nazione”. Sono tutte risorse investite “nel tentativo di tornare al precedente status quo – sottolinea - Qualsiasi spinta al Pil trimestrale derivante da un aumento degli investimenti fissi residenziali e non residenziali è un'espressione aritmetica dell'attuale attività, non un riflesso della ricchezza di una nazione”.
E per spiegarlo cita un classico saggio dell’economista francese dell’800, Frederic Bastiat, nel quale viene riportato “Il racconto della finestra rotta”, altrimenti detto “Ciò che si vede e ciò che non si vede”, per chiarire la nozione dei costi occulti o incidentali e spiegare perché la distruzione, e il denaro speso per la ricostruzione, non portano beneficio alla società. Il figlio di un commerciante rompe accidentalmente una finestra del negozio. Un danno che richiede 6 franchi per sostituirla. Questi soldi vanno al vetraio che ha una piccola somma da spendere per qualcos’altro. E così via. Ma l’accaduto può essere visto anche da un’altra prospettiva. Quegli stessi sei franchi, il commerciante avrebbe potuto impiegarli in altro modo se la finestra non fosse stata rotta.
La spinta allo sviluppo è sostitutiva
Un principio che viene spesso nominato quando si parla di disastri naturali, e non solo. A citarlo in questo caso è anche il bollettino della First Trust dedicato all’”Economia dell’uragano”. Come sottolineano gli autori, dopo disastri naturali “generalmente si fanno due tipi di errori pensando a come questi influiscono sull’economia. C’è chi pensa che le distruzioni porteranno alla recessione e chi, al contrario, pensa che la ricostruzione potrebbe aiutare l’economia. Nessuno dei due ragionamenti è corretto”.
“Alcune stime indicano che i danni causati da Harvey potrebbero arrivare vicino ai 108 miliardi di dollari stimati per Katrina (2005), certamente sopra i 75 miliardi di dollari per l’uragano Sandy (2012). Nessuna di queste tempeste precedenti ha causato una recessione e allo stesso tempo, i dati non mostrano neanche alcuna reale accelerazione nella crescita”.
Ed è qui che, numeri alla mano rispetto alla crescita americana dopo gli uragani citati, gli economisti della First Trust citano il saggio dell’economista francese: “Anche se ricostruire sembra creare nuova attività economica, ricostruendo le cose che sono state distrutte, in realtà nel tempo priva un'economia dei benefici della crescita. Riparare un capitale fisico non genera nuove ricchezze, sostituisce solo vecchia ricchezza”. “La lezione – concludono – è che questi disastri, una tragedia in tanti modi, non modifica il percorso fondamentale dell’economia americana”.