Gli investitori si preparano a incassare, gli autisti scioperano. Mancano poche ore alla quotazione di Uber. Sarà una delle più grandi nella storia di Wall Street e metterà miliardi nelle tasche di fondi, fondatori, investitori che ci hanno creduto. Fuori, gli autisti hanno organizzato manifestazioni davanti ad alcune sedi della società: rivendicano paghe più eque, condizioni di lavoro da dipendenti. E definiscono i bonus che Uber sta concedendo loro “briciole”, soprattutto se comparati agli enormi guadagni che pioveranno al suono della campanella del 10 maggio.
Lo sciopero degli autisti
In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, spiega il New York Times, gli autisti hanno organizzato decine di presidi: fumogeni, slogan e cori urlati alle sedi della compagnia: “Miliardi ai boss e paghe povere per i driver”. A San Francisco, i manifestanti hanno bloccato la strada del quartier generale di Uber, accusando la società di fare soldi con l'Ipo “sulle spalle dei conducenti”. Ci sono proteste simili anche anche a New York. Le rivendicazioni hanno raccolto l'appoggio di diversi candidati alla presidenza: Bernie Sanders, Elizabeth Warren e Kamala Harris.
Si tratta di una delle più ampie e coordinata azioni degli autisti di Uber, anche se da qui a definirla uno sciopero di massa, ce ne vuole. Lo status contrattuale, da collaboratori autonomi, rende più complesso fare fronte comune, anche perché il panorama è frammentato: non tutti puntano a diventare dipendenti, non tutti erano a conoscenza dello sciopero. E poi c'è chi preferisce non perdere una giornata per protestare. Buona parte degli autisti Uber, quindi, hanno continuato a viaggiare e trasportare clienti.
I driver non saranno mai dipendenti
Il cuore delle proteste è sempre lo stesso: lo status dei lavoratori. Tutti gli autisti di Uber sono collaboratori autonomi. Vengono pagati per le corse assegnate loro tramite l'app. Formalmente non hanno vincoli orari, anche se spesso guidare per Uber è la loro principale occupazione. Mancano però le tutele tipiche di un dipendente: malattia e ferie, ad esempio. A differenza di un autonomo, non c'è invece la possibilità di discutere le tariffe, fissate dalla società. Il fondatore di Uber, Travis Kalanick, ha avuto un approccio frontale con tutti: istituzioni o autisti. Questa e Uber, o lavorate così o nulla.
Il nuovo corso di Dara Khosrowshahi, inaugurato nel settembre 2017, ha toni più concilianti. Non c'è occasione pubblica in cui il ceo non definisca i conducenti “la vera ricchezza di Uber”. Non sono mancate misure richieste da tempo dagli autisti, come alcune funzioni dell'app create per tutelare la loro sicurezza, le mance e – dallo scorso giugno anche in Italia - una copertura assicurativa per infortuni e malattie.
C'è però una cosa su cui Kalanick e Khosrowshahi sono perfettamente allineati: gli autisti sono autonomi e non saranno mai dipendenti. La versione pubblica è: i conducenti sono indipendenti e apprezzano la flessibilità che Uber permette di avere. Quella ufficiale, contenuta nei documenti inviati alla Sec in vista della quotazione, non cambia la sostanza ma la motivazione: “La nostra attività – scrive Uber - sarebbe compromessa se i conducenti fossero classificati come dipendenti anziché come lavoratori indipendenti”. Troppi costi, impossibili da sostenere per una società che non ha ancora prodotto utili.
Quanto guadagnano gli autisti
Uber afferma che, dal 2015 a oggi, più di tre milioni di autisti hanno incassato 78,2 miliardi di dollari. Ma la società non fornisce altri dettagli. Secondo uno studio del Center for Energy and Environmental Policy Research del Mit, pubblicato nel febbraio 2018 e contestato da Uber, un autista statunitense medio di Uber e Lyft (la principale concorrente Usa) incassa 3,37 dollari l'ora (lordi). Tre conducenti su quattro guadagnano meno della paga minima fissata dello Stato nel quale operano e il 30% è addirittura in perdita.
Lo studio afferma che la maggior parte degli autisti lavora meno di 40 ore a settimana e incassa in media 661 dollari al mese. In occasione dell'Ipo, Uber ha deciso di ricompensare 1,1 milioni di autisti in tutto il mondo. Quelli statunitensi possono esercitare un'opzione e trasformare la cifra in azioni. Gli organizzatori delle proteste in Gran Bretagna e Stati Uniti hanno però parlato di “foglia di fico” e “briciole”. Mostafa Maklad, un autista di Uber intervistato dal New York Times, avrebbe ricevuto 500 dollari dopo quattro anni di lavoro. Abbastanza per comprare solo una decina di azioni. Cifre sproporzionate rispetto ai miliardi che scorreranno a Wall Street.
Chi diventa (ancora più) ricco con l'Ipo
Il mese scorso, Uber aveva ipotizzato una quotazione a un prezzo tra i 44 e i 50 dollari per azione. Sembra orientata – scrive il Wall Street Journal - a percorrere la via intermedia: titolo attorno ai 47 dollari, che valuterebbe la compagnia 86 miliardi di dollari. Si tratta di uno “sconto” rispetto alle attese dei mesi scorsi. Quando le voci di un'imminente Ipo si erano fatte più insistenti, l'obiettivo superava abbondantemente i 100 miliardi.
Uber avrebbe scelto di proporsi con cautela visto il disastroso esordio di Lyft, che da quando si è quotata ha perso un quarto del proprio valore e vissuto uno degli esordi peggiori nella storia di Wall Street. Nonostante lo sconto, quella di Uber resta comunque tra le maggiori Ipo di sempre, la terza di un'azienda tecnologica dopo Alibaba e Facebook. Adesso che si conosce (anche se non è ufficiale) il prezzo di Uber, è possibile calcolare quanto valgono le quote in mano ai principali azionisti.
SB Cayman 2 è il veicolo di Vision Fund, il fondo d'investimento guidato da SoftBank. Ha in tasca 222 milioni di azioni, pari a una quota del 16,3%. A 47 dollari per azione, vuol dire avere nel cassetto 10,4 miliardi di dollari. Il venture capital Benchmark ha l'11%. Quindi oltre 7 miliardi. La quota del Public Investment Fund, (il fondo sovrano saudita) vale 3,4 miliardi e quella di Alphabet (la holding che controlla Google) 3,3 miliardi. Il fondatore ed ex ceo Travis Kalanick ha l'8,6% delle azioni, il cui valore ipotetico è di 5,5 miliardi. L'altro co-fondatore, Garrett Camp, ha in tasca 3,8 miliardi.
Ci sono poi le quote nelle mani di singoli: investitori e manager. Nell'azionariato ci sono anche nomi noti come Jeff Bezos e Rupert Murdoch. La dimensione delle loro quote non è nota perché inferiore al 5% (soglia oltre la quale scatta l'obbligo di comunicazione). Viste le cifre in ballo, però, sotto il 5% ci sono pacchetti che potrebbero valere circa 4 miliardi. Insomma, non proprio spiccioli. Ed è plausibile che, in termini percentuali, il vero affare lo abbiano fatto alcuni investitori della prima ora, che si ritrovano in mano un pezzettino di Uber da qualche centinaio di milioni dopo aver sborsato somme modeste (almeno in confronto ai miliardi scuciti da chi è arrivato dopo, come SoftBank). Dovrebbe essere il caso dell'attore Ashton Kutcher, che ha partecipato a un round del 2010.
Ci sono altre quota note pur essendo inferiori al 5%: sono quelle nelle mani dei manager e dei consiglieri. Ryan Graves è stato il primo dipendente assunto da Uber, dopo aver risposto a un annuncio visto su Twitter. La sua quota del 2,2% potrebbe valere 1,6 miliardi. Le 22.000 azioni possedute da Arianna Huffington valgono un milione. Le 196.000 su cui il ceo Khosrowshahi può esercitare opzioni poco più di 9 milioni.
L'equivoco della sharing economy
Questo non vuole essere un confronto tra la paga di un autista e i giganteschi incassi dei venture capital. Chi lavora fa bene a rivendicare diritti e paghe migliori se crede di non averli; chi ha inventato un'azienda miliardaria e chi ci ha visto lungo, rischiando soldi propri, è giusto che guadagni molto. La sproporzione chiarisce però un punto su cui spesso si fa confusione: questa non è sharing economy.
Uber, così come AirBnB e le piattaforme di consegna come Deliveroo e Glovo, sono aziende che – legittimamente, se rispettano le leggi – puntano a fare profitti. Hanno proposto nuovi modelli d'impresa e nuovi modelli di consumo. Stanno cambiando il lavoro in un modo che sfugge allo schema classico, tanto da richiedere un nuovo vocabolario: nel 2017 il rapporto “Good Work. The Taylor Review of Modern Working Practices”, commissionato dal governo britannico, raccomandava di varare una nuova legislazione, con una definizione “più chiara” di cosa sia un lavoratore, superando la dicotomia tra “dipendente” e “autonomo” e riconoscere la terza via di “dependent contractors” (cioè “dipendenti autonomi”). I numeri, però, dicono che “la condivisione” è un'altra cosa.