Settantamila bambini che restano senza giocattoli: Toys “R” Us chiude i battenti e lascia a casa i loro genitori. Due, necessariamente, per ogni bambino, ma siccome i dipendenti della catena fino ad oggi più potente al mondo nel ramo dello svago sotto i 14 anni sono almeno 60.000 in tutto il Pianeta, e che negli Usa il tasso di fertilità femminile è di 1,87 (un valore medio: in Europa è più basso, altrove più alto), e che in questo genere di esercizi le donne sono più impiegate degli uomini, diciamo al 60 percento, il conto finale fa 67.320. Per capirci: la crisi di Toys R Us investe l’equivalente di una città media italiana e le conseguenze sono destinate a farsi sentire. Senza considerare che, sotto Natale, i dipendenti e le dipendenti quasi raddoppiano, arrivando a centomila.
Colpa della crisi, colpa di Amazon e dell’ecommerce con le loro consegne in tempi rapidi fin sulla porta di casa. A nessuno va più di passare un sabato pomeriggio al negozio di giocattoli, nemmeno se questo vuol dire godersi per una decina di secondi la faccia stupefatta di un bambino che per la prima volta nella vita vede un vero soldatino di piombo aprirgli la porta del paradiso. Era quello che tanti anni fa accadeva da Fao Schwarz, cinque piani di peluche, sveglie parlanti e cavallini a dondolo piazzati nel bel mezzo della Quinta Strada di New York. Che, come al solito, è la prima a far tendenza e quindi Fao Schwarz fu il primo a passare a miglior vita, ci auguriamo nel paradiso dei calzini.
Nulla di più contrario della fredda logica dei numeri, che invece oggi condanna Toys R Us alle fiamme eterne, complici quei genitori che preferiscono i pomeriggi sul divano a vedere il Super Bowl o magari costretti a fare gli straordinari perché in casa i soldi non bastano mai, e tra una play ed i risparmi per il futuro college una persona responsabile sceglie i secondi.
In Europa addio a 300 punti vendita
Spariscono così 800 tra negozi e superstore nel solo territorio americano, ed altrettanti nel resto del mondo. Trecento sono quelli in Europa. David Brandon, nel dare l’annuncio ai lavoratori dell’azienda che ha guidato fino ad oggi, ha detto che gli introiti, anche dopo le ultime feste di fine anno, sono stati veramente magri: una volta erano di 600 milioni di dollari all’anno, oggi “meno della metà”. Sull’altro piatto della bilancia i 6,6 miliardi di debiti accumulati a partire dal 2005, anno di una sciagurata acquisizione da parte di una cordata di capitani coraggiosi.
Una nota positiva: Fao Schwarz, qualche mese fa, ha riaperto. Ma se la crisi è di sistema, allora la concorrenza ha poco da gioire, anche se il settore vanta nei soli Stati Uniti un volume di affari di 27 miliardi di dollari. Che sono un’immensità, ma anche gli oceani talvolta possono prosciugarsi. E a quel punto restano solo le poche misure tampone che un datore di lavoro in liquidazione può garantire a chi, contrattualmente più debole, è il primo ad essere liquidato. Come nel caso di Brandon, che ha avuto cura di assicurare ai suoi ormai ex dipendenti due mesi di salario pagato, più i fringe benefit. Il che dà un minimo di respiro, ma non più di quello: siamo ancora a marzo, e quei soldi non basteranno certo per arrivare al prossimo Natale.