Il 2017 sarà ricordato come l’anno in cui il decennio di incanto misto a speranza nei confronti delle aziende tecnologiche è finito. Forse irrimediabilmente. L’Economist aveva introdotto un termine lo scorso giugno per indicare questo sentimento: techlash. Difficile da rendere in Italiano, ma possiamo tradurre come la risacca dopo l’ondata di entusiasmo creatasi attorno alle internet company del duemila, dai big del tech al fenomeno delle startup.
Ma non solo l’Economist. Buona parte dei media internazionali hanno cominciato a criticare lo strapotere acquisito da parte delle aziende simbolo della new economy di Internet. Prendete aziende come Google, Facebook, Uber e Apple. Il loro mantra, "muoversi rapidi e cambiare le cose" ha cominciato a stare stretto a molti governi nazionali. La promessa di un futuro globale e interconnesso che vede nelle aziende della Silicon Valley i simboli di questo messaggio ha cominciato a scemare quando il contrappasso alla loro crescita esponenziale è diventato la sovranità degli Stati.
L'ovazione per l'antitrust europeo al Web Summit 2017
Che qualcosa stesse cambiando era nell’aria. Ma forse c’è un momento che più di altri racconta come è cambiato il sentimento generale nei confronti di queste aziende da parte del resto del mondo. Non solo in Cina e nei Paesi arabi, o in Russia. Anche in Europa. Sul palco del Web Summit di Lisbona lo scorso 7 novembre Margrethe Vestager, politico danese e commissario europeo per la concorrenza, ha strappato ovazioni e lunghi applausi durante il suo discorso di inaugurazione della tre giorni dove migliaia di imprenditori nel campo dell’innovazione di tutto il mondo si sono riuniti per fare affari. Il motivo? Ha rivendicato la sua scelta di multare Google per 2,4 miliardi di euro, di voler introdurre una nuova regolamentazione europea sull’uso dei dati, e di voler vigilare ancora più intensamente sulle infrazione alle leggi del libero mercato.
“Sappiamo che ogni startup vorrebbe essere Google, e noi non vogliamo ostacolare il successo di nessuno. Noi non abbiamo mai obbiettato nulla sul fatto che il motore di ricerca di Google domini il mercato oggi, ma ci siamo opposti al fatto che quel motore di ricerca soffochi il libero mercato e l’innovazione” ha detto sul palco di Lisbona. Perché una posizione di mercato dominante nel tech può portare al paradosso che la “paura” di essere scavalcati induca i big ad ostacolare le nuove idee, nuova innovazione, quando proprio non riescono a comprarle.
Vestager è la stessa che ha multato Facebook per 110 milioni di euro per aver mentito, al momento dell’acquisizione di WhatsApp, sul futuro collegamento tra gli account del social network e i profili del servizio di messaggistica. Ed è la stessa dell’ingiunzione ad Apple perché pagasse 13 miliardi di euro di tasse arretrate al governo irlandese.
Che il suo pugno duro verso le big company del tech americane fosse particolarmente apprezzato dall’audience iper specialistica di Lisbona lo ha sottolineato il commento di Peddy Cosgrave, il fondatore del Web Summit e una delle personalità più influenti al mondo delle tech company: “Se Margrethe riuscirà in questo, darà l’esempio al resto del mondo e cambierà anche il modo in cui le grandi aziende considerano le più piccole. Lo scenario competitivo sarà più orizzontale”, ha detto a conclusione dell’intervento del commissario europeo, continuando la striscia di applausi che lo aveva accompagnato.
"La Silicon Valley è passata dal lato sbagliato della storia"
Il giudizio da parte della platea del Summit era piuttosto inequivocabile. E non a caso Il Foglio di qualche settimana fa parlava di “Processo culturale contro la Silicon Valley”, dove si legge: “La Silicon Valley è passata dal lato giusto al lato sbagliato della storia, e il passaggio repentino ci dovrebbe mettere in guardia dall’abuso di questa presentazione manichea della storia. E’ rischioso dividere lo svolgimento delle cose umane in due sponde radicalmente separate: se un giorno si scopre che i buoni erano in realtà cattivi, che si fa? […] La Silicon Valley ha avuto alti e bassi, momenti sterili e favolosi eureka, bolle e ripensamenti, ma finora la sua collocazione nel grande schema non è mai stata messa in discussione. Apparteneva naturalmente alle forze del bene. Si sta scoprendo invece in questi anni che la realtà è molto più simile alla fantascienza, dove le cose più affascinanti sono anche quelle più pericolose”.
Lo strapotere economico acquisito, la capacità di fatturare quanto interi stati, l’utilizzo dei dati di navigazione degli utenti, delle loro abitudini, come fonte di guadagno, stanno gradualmente cambiando il modo in cui guardiamo queste aziende. La loro libertà di fare affari ovviando ai confini nazionali ha indotto diversi governi a cercare contromisure dal punto di vista fiscale, con la Francia in prima linea fino ad arrivare alla web tax introdotta dall’Italia in legge di Bilancio.
La fine dell'era delle startup
Più in generale sembra proprio la cultura globale della Silicon Valley ad aver perso smalto. Quel globalismo in molti casi si è tradotto in monopolio. Google, Amazon, Facebook sono aziende che di fatto non hanno concorrenti. Né al momento è pensabile che possano averne. I giganti della digital economy (Google, Facebook, Amazon, Microsoft, Apple) hanno raggiunto dimensioni tali che sono in grado di soffocare le opportunità di crescita delle nuove startup, assorbendole con operazioni di acquisizione, o impedendone lo sviluppo facendo leva proprio sulla loro posizione di dominanza del mercato.
L’Economist scrive che i governi spesso hanno buone ragioni per rivendicare la loro sovranità nazionale sul mondo digitale. Sono responsabili della sicurezza nazionale, e sono eletti per difendere il Paese. E soprattutto devono difendere i propri bilanci, perché spesso queste aziende pagano pochissime tasse nei paesi in cui fatturano. “Ma questa spinta a nuove regole potrebbe far nascere la minaccia di un’internet diviso, con confini nazionali riprodotti nel cyberspazio". Il rischio è che questo possa mettere fine alla rete come la abbiamo conosciuto finora.