Loro Macron, noi micron. Sarebbe il titolo perfetto per raccontare la distanza tra noi e la Francia in tema di startup. Ieri su Agi.it Riccardo Luna ha scrittoquesto post "Startup, sveglia Italia! Siamo fermi al palo". La nostra è una vera "Emergenza Innovazione", che stiamo provando ad indagare, coinvolgendo i massimi esperti sull'argomento. Ma ci piacerebbe coinvolgere tutti, anche quelli che massimi esperti non sono. Se volete contribuire scriveteci qui:dir@agi.it A presto.
Marco Bicocchi Pichi, 56 anni di Follonica, è il presidente di Italia Startup, l'associazione delle startup italiane. Conta circa duemila iscritti e ha assunto un ruolo centrale nella costituzione del primo embrione di ecosistema imprenditoriale innovativo quando, nel 2012, è nata insieme alla normativa italiana delle startup voluta dall'allora ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera. Il presidente di allora dell'associazione era Riccardo Donadon, numero uno di H-Farm, che ha fatto parte della taskforce voluta dal ministro e che l'ha presieduta fino al 2015. Bicocchi Pichi ne ha preso il posto oramai 3 anni fa (questo è il suo ultimo anno di presidenza) e nel giorno del suo insediamento aveva messo tra i suoi obiettivi quello di portare a un miliardo gli investimenti in startup italiane. Siamo a meno di duecento milioni e la situazione non è migliorata da allora.
75 milioni di investimenti nei primi sei mesi del 2017, ad essere ottimisti. Sorpreso?
"Non sono sorpreso, purtroppo. Chi è “sul pezzo” vicino alle startup ed anche a quelle già avviate lo sa bene che la capacità d’investimento del nostro ecosistema rimane molto limitata parlando di venture capital Italiani. E i privati mostrano solo timidi segni d’interesse con una iniziale risposta agli incentivi fiscali ed una crescita dell’attenzione alle proposte che arrivano tramite l’equity crowdfunding".
All'inizio del suo mandato come presidente di Italia Startup era fiducioso che in tre anni saremmo arrivati a un miliardo di investimenti. Siamo a un decimo. Cosa non ha funzionato?
"Magari a un quinto, non esageriamo. Comunque più che fiducioso avevo una speranza fondata basata su aspettative razionali. Da molto tempo ripetiamo il dato dei mille miliardi di investimenti liquidi della clientela delle banche private e dei quattromila miliardi totali di risparmio privato. L’insieme del risparmio inclusi i fondi di previdenza privati e pubblici è tale da rendere non solo possibile ma modesto il target un miliardo anno di investimenti in imprese innovative in Italia. L’incapacità di sognare sogni grandi e darsi obiettivi alti è spesso tradotto come essere realisti, ma in verità è più essere di vedute limitate".
Perché quindi non si investe?
"L'economia mondiale cresce, le opportunità ci sono, occorre investire e rischiare per coglierle. Perché non succede? Perché non abbiamo vinto la battaglia culturale, non abbiamo cambiato approccio, stiamo guardando indietro al modello di crescita del dopoguerra, in un contesto del tutto diverso, e non avanti nel mondo globalizzato ed interconnesso. Il dibattito sull’Euro ed i “sovranisti” sono un sintomo di una malattia della nostalgia del passato che richiama al “bel tempo andato”. È un fenomeno che non è solo Italiano ma è sicuramente radicato in quel conservatorismo che caratterizza una cultura con aspetti positivi, alta propensione al risparmio, uniti ad altri molto negativi come la diffidenza per il ruolo dell’imprenditore e dell’impresa".
Sono 5 anni che si parla di startup, e ora l'attenzione sta scemando e si comincia a pensare che l'ecosistema non funziona perché le startup sono scarse. Che ne pensa?
"È il paradosso assoluto. 'Quelli che lasciano l’Italia non li rimpiangiamo troppo perché qui non son mica tutti sciocchi' e poi quelli che sono rimasti, che si battono con generosità ed impegno, li definiamo degli scarsi. Ma allora vogliamo non avere una fuga di cervelli ma una diaspora vera. Non esiste un limite genetico nell’imprenditore Italiano. Si può dire forse che molti sono uomini di prodotto, più inventori che imprenditori.
Sì, ma le startup non crescono.
"Io sono personalmente convinto che esistono numerosi casi di imprese in Italia sotto finanziate che non esprimono il loro potenziale e quindi in conseguenza non scalano, non fanno exit e non generano il circolo virtuoso. Non può sorprendere troppo, perché se la cultura è quella della creazione delle micro imprese e se le nostre Pmi soffrono storicamente di mancanza di management professionale e di capitale di rischio".
Un’altra voce che si leva è che in Italia si fanno troppi convegni e ci sia ancora troppa fuffa. Pensa sia vero? Quanto?
"Seminari, convegni, startup competition; in verità non è questione di quantità ma di qualità. La vera domanda che ci dobbiamo porre è quanti di questi eventi rappresentano momenti di crescita culturale e di confronto, quanti permettono concretamente di fare matching tra startup e clienti e/o investitori e quanti sono passarelle per molti soggetti che poco hanno a che fare con le startup perché mai ne hanno fondata una, finanziata una, comprata una".
Gli ingredienti per creare uno startup ecosystem, per citare l'arcinoto The Rainforest, sono: idee, talenti, ambiente fertile, politica attenta ai temi dell'innovazione e investimenti. Quale ingrediente ci manca?
"Partiamo a dire che ingredienti sicuramente abbiamo; idee e talenti. Potremmo avere più talenti e più idee e migliori? Forse, o meglio sicuramente sì perché di più e meglio è sempre possibile, ma la mia convinzione è che non utilizziamo bene i talenti che abbiamo e ci sono ottime idee che non vengono finanziate adeguatamente e siccome il mercato del venture capital tende ad essere poco o per nulla propenso ad operare attraverso i confini nelle fasi iniziali va prima creato un mercato domestico, di prossimità. La politica non è sempre attenta e non lo è in tutte le sue componenti ma ho francamente difficoltà a farne il capo espiatorio. Manca l’ambiente concorrenziale e competitivo che spinge le imprese ad adottare e comprare innovazione, la pressione a rischiare per non finire battuti da concorrenti più dinamici o da startup cresciute rapidamente".
La sua proposta: cosa deve fare l'Italia per far decollare il mercato delle startup?
"Per fare decollare le startup occorre volerlo. Volerlo vuole dire porsi nei confronti della rivoluzione digitale, della quarta rivoluzione industriale con l’obiettivo di far leva sul cambiamento e non cercare di controllarlo, normalizzarlo, in altre parole occorre non resuscitare il Gattopardo che vive in noi. Con quali leggi e provvedimenti concreti? Continuando sulla strada intrapresa di incentivi all’investimento potenziandoli ulteriormente e semplificando e riducendo il quadro di norme, adempimenti, oneri fiscali e previdenziali che gravano sull’impresa in Italia. Non ci sono pallottole d’argento, non ci sono ricette magiche ma serve accettare la sfida del far funzionare meglio lo Stato e ridurre gli oneri per le imprese. Alcuni provvedimenti già proposti nel “manifesto delle sette associazioni” a novembre 2016 si sono fermati nel passaggio dal governo Renzi a quello Gentiloni. Non bastano, ma cambiare non è il lavoro di un giorno ed occorre agire con una vista alle cose immediate e più facilmente realizzabili ed una al quadro generale ed alle grandi ineludibili riforme".