Un po' di altalena c'è stata, ma i timori di una volatilità eccessiva si sono rivelati infondati: l'approdo in borsa di Spotify è stato (per ora) un successo. Moltiplicando così l'interesse nei confronti della strada scelta dalla piattaforma di musica in streaming: la quotazione diretta.
I rischi della quotazione diretta
Spotify ha saltato la liturgia delle tradizionali Ipo. Non si è affidata alle banche per promuoverla, non c'è stato roadshow (il "tour" promozionale rivolto agli investitori istituzionali) ma solo una diretta streaming. E, a voler marcare la differenza, i fondatori non hanno neppure voluto suonare la campana che apre la seduta, compito che la tradizione affida proprio all'ultimo arrivato. Non c'è stata l'emissione di nuove azioni né esiste un periodo di lock-up durante il quale dipendenti, fondatori e primi investitori sono obbligati a tenersi i titoli per evitare che una spinta alla monetizzazione faccia precipitare le azioni. Semplicemente, Spotify si è presentato al mercato, lasciando piena libertà agli azionisti (di vendere) e agli investitori (di comprare). Ecco perché c'era il rischio che il titolo ballasse. È stato, in parte, così. Ma su quotazioni superiori alle attese e nonostante il comparto tecnologico stia vivendo giorni di sofferenza.
Il primo giorno di scambi
Secondo il prospetto consegnato da Spotify alla Sec, tra il primo gennaio e il 22 febbraio, le azioni sono state scambiate privatamente a un prezzo compreso tra i 90 e i 132 dollari. Per una valutazione tra i 15,9 e i 23,4 miliardi di dollari. Il titolo ha invece esordito a 165,9 dollari, si è arrampicato fino a 169 e ha chiuso a 149,01 dollari. Quindi sì, la variazione di prezzo c'è stata, ma mantenendosi comunque 17 dollari oltre la più alta valutazione data in sede privata e "pesando" Spotify 26,5 miliardi di dollari. Cioè una delle 10 maggiori quotazione tecnologiche di sempre e oltre la principale del 2017, quella di Snap.
Chi ha guadagnato, chi controlla la società ora
Con il prezzo di chiusura della prima giornata, la quota del co-fondatore Daniel Ek vale 2,3 miliardi di dollari e quella dell'altro co-fondatore, Martin Lorentzon, 3,2. Ma nel capitale ci sono anche la cinese Tencent, con una quota di 2,4 miliardi, e Sony, con 1,5 miliardi. Nonostante quote tutto sommato contenute (dell'8,8 e del 12,2%) i due fondatori hanno mantenuto un solido controllo della gestione. Detengono infatti l'80,4% dei diritti di voto. Decidono tutto loro. Per quanto sia stato innovativo il percorso di quotazione, Ek e Lorentzon sono iper-tradizionalisti nella struttura azionaria. E nonostante siano nati a Stoccolma, hanno abbracciato una prassi della Silicon Valley (da Snap a Facebook e Google): i fondatori incassano senza però mollare un briciolo di controllo.