Si fa presto a dire “sistema operativo”. Senza Android (fatta eccezione per la versione open source, libera ma impoverita), Huawei è partita al contrattacco. Avrebbe già pronta un'alternativa. Resta però difficile distinguere tra dialettica e concretezza. E in fondo non è neppure fondamentale farlo, perché avere un proprio sistema operativo non basta. Servirebbe qualcosa di molto più complesso: un ecosistema.
A che punto è il sistema operativo di Huawei
Trump inserisce Huawei nella sua “lista nera”, Google rompe con il gruppo cinese concedendo solo la versione pubblica di Android, senza i servizi e le applicazioni di Mountain View. La Casa Bianca congela il provvedimento per tre mesi. Adesso la società di Shenzhen risponde. Intervistato da Cnbc Richard Yu, ceo della divisione consumer, spera ancora di ricucire con Google e Microsoft (a proposito, la società di Satya Nadella, che fornisce il sistema operativo dei portatili, non ha ancora fatto sapere nulla).
Tuttavia, se così non fosse, Huawei “userà un proprio sistema operativo”. Troppe sono le incognite legate a un versione open source di Android. E troppe sono quelle sul blocco di Google Play e delle app di Google (che di certo non saranno preinstallato ma che potrebbe avere ulteriori restrizioni sui dispositivi Huawei). L'idea di mettersi in proprio non è nuova. Lo stesso Yu aveva parlato di un “piano B” già lo scorso marzo. La novità di queste ore è (sarebbe) l'accelerazione del progetto: il sistema operativo di Huawei sarebbe pronto in Cina entro l'autunno e arriverebbe all'estero tra il primo e il secondo trimestre 2020.
La testata cinese Caijing.com ha aggiunto alcuni dettagli (non ufficiali) in un post su Weibo: il sistema operativo funzionerebbe sia su smartphone che su pc (sostituirebbe quindi sia Android sia Windows) e sarebbe compatibile con le app del robottino verde. Una fonte ha però spifferato a The Information che le cose non starebbero proprio così. Il sistema sarebbe ancora “lontano dall'essere pronto” e richiederebbe agli sviluppatori una versione delle app ad hoc. Il nodo riguarda soprattutto il lancio internazionale, perché il blocco di Google (che non è ancora detto ci sia) non toccherebbe più di tanto il mercato cinese, mentre potrebbe avere un impatto più consistente in Europa.
Il problema è l'ecosistema
Il dominio di Android è stato oggetto di multe e indagini antitrust. Un sistema operativo alternativo potrebbe essere un fattore, soprattutto se a svilupparlo è il secondo produttore di smartphone al mondo. Google potrebbe perdere una bella fetta di clienti e Huawei avrebbe la massa critica per imporsi: è suo il 19% degli smartphone venduti. Cifra considerevole, ancor di più se si pensa che è stata accumulata fuori dagli Stati Uniti, tra Cina ed Europa (dove la quota è del 29%).
Più concorrenza, alleggerimento del peso di Android, maggiore presenza di Huawei: fin qui è tutta teoria. Il programma di Richard Yu è una novità importante, ma non decisiva. Il perché è tutto in una frase del fondatore Ren Zhengfei, riportata da Global Times, giornale in lingua inglese del Partito Comunista Cinese: “Non è difficile trovare un nuovo sistema operativo, è difficile creare un ecosistema”. Ecco qual è il vero nodo di tutto. Huawei deve costruire un'alternativa ad Android, fornendo anche servizi e applicazioni. Il gruppo ha già un proprio negozio digitale, AppGallery, che però resta solo un'alternativa periferica di Google Play.
L'esempio più chiaro di cosa voglia dire “ecosistema” è Apple. La Mela ha un proprio sistema operativo (iOS, con l'App Store) e gira solo sui dispositivi di Cupertino (iPhone, iPad, Watch), che hanno accesso anche a una crescente gamma di servizi. L'ecosistema è fatto quindi di diverse componenti, che incoraggiano l'utente a entrare sperando di trattenerlo oltre la vita del singolo smartphone. Migrare da un Android all'altro è più semplice, perché – al di là dei marchi – ci si muove nello stesso ecosistema. Così come comprare un iPhone non vuol dire solo mettere in tasca un telefono ma entrare in una galassia di app, funzioni, sincronizzazioni.
Sia Google che Apple (terzo produttore di smartphone al mondo) hanno le proprie galassie. Molto diverse ma già adulte. Quella di Huawei è ancora tutta da costruire. Che ci riesca è tutt'altro che scontato. Ci aveva provato Microsoft, non proprio l'ultimo arrivato. Nel mercato degli smartphone non ha mai avuto quote paragonabili a quella Huawei, ma aveva grandi conoscenze sui sistemi operativi e acquistato Nokia per fare tutto in casa.
È stato forse il più grande fallimento nella storia di Microsoft. Lo scenario è diverso, ma è solo un precedente che fa intuire quanto complesso possa essere costruire un ecosistema. Il sistema operativo cinese non sarebbe certo una buona notizia per Google, ma dire che Big G perderebbe di colpo un quinto del mercato e che Huawei s'imporrebbe anche fuori dai propri confini è quantomeno prematuro.
Le “caute minacce” di Huawei
Già in passato, praticamente ogni volta che Trump ha minacciato e accusato Huawei, il gruppo cinese e Pechino hanno risposto con modalità molto simili. Ostentazione di forza e piccole aperture. Scontro aperto ma non definitivo. È successo anche questa volta. Il ministero degli esteri ha fatto sapere che “supporterà le imprese cinesi per far valere i loro legittimi diritti”. E Ren Zhengfei ha spiegato che “gli Stati Uniti sottovalutano Huawei” e che il bando avrà probabilmente un impatto sui “prodotti di fascia bassa”, perché il gruppo non “si è preparato a sufficienza”. Ma, è convinto il fondatore, non saranno toccati né i dispositivi più avanzati né il 5G.
Allo stesso tempo, Ren Zhengfei, ha deciso di non cavalcare pubblicamente il nazionalismo commerciale: “Dico una cosa in favore delle imprese americane”, ha affermato. “Chi ha intenzione di attaccare qualcuno, lo faccia con i politici statunitensi, ma non pensi di essere un patriota utilizzando i prodotti Huawei. Se ti piacciono, comprali. Ma non politicizzarli”. Il presidente di Huawei ce l'ha con Trump e con la entry list, ma non con Google, Intel e Qualcomm. Le imprese hanno semplicemente “applicato la legge”. Come a dire, una volta di più, che il problema - come detto in passato da manager di punta del gruppo – è politico. Protezionismo e bandi incrociati non convengono a nessuno: “Bisogna capire che le imprese statunitensi condividono il nostro stesso destino”.