Il predominio nell’intelligenza artificiale, che il governo cinese vuole trasformare in una industria da 150 miliardi di dollari, ha un costo. Lo pagheranno 40-50 milioni di lavoratori a tempo pieno che vedranno il loro posto di lavoro occupato dai robot. Nel giro di 15 anni. Lo dice un rapporto stilato dal think tank governativo China Development Research Foundation (CDRF) insieme a Sequoia China China sulla base dei dati raccolti dal McKinsey Global Institute. In pratica, entro il 2030 i robot sostituiranno un quinto della forza lavoro nel settore manifatturiero. Non solo: 100 milioni di lavoratori dovranno cambiare professione se il processo di automazione dovesse procedere a un passo spedito.
I settori più a rischio
La forza lavoro in Cina ammonta a 776 milioni di persone, di cui il 54% si concentra nelle zone urbane. L’automazione, innescata dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale, avrà un impatto sul 70% della manodopera.
Più in dettaglio: il rapporto stima che nel giro di 20 anni l’AI andrà a sostituire il 99% dei lavoratori nel settore agricolo, della pesca e della silvicoltura; il 98% degli impiegati nel settore delle costruzioni; il 94% degli addetti all’installazione a al mantenimento dei sistemi di alimentazione.
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L’arrivo dei robot ha già portato a sforbiciare il 30-40% della forza lavoro nelle province del Jiangsu, dello Zhejiang e del Guangdong. A rischio 96 mila figure professionali nell’industria delle vendite online e il 23% dei dipendenti negli enti finanziari.
Grandi stravolgimenti riguardano proprio il settore finanziario che entro il 2027 conterà 9,93 milioni di dipendenti. Rischiano di perdere il lavoro: il 22% dei professionisti impiegati nelle banche; il 25% di quelli che lavorano nel mercato delle assicurazioni; e il 16% di chi è impiegato nel mercato dei capitali.
Il resoconto è spietato: si tratta di mansioni meccaniche che possono essere tranquillamente svolte dagli androidi. “I robot industriali hanno migliorato enormemente l’efficienza industriale, l’AI ha soppiantato il 90% delle mansioni meccaniche nelle fabbriche che usano i miei robot”, ha detto al Global Times Sun Ying, vice presidente della Zhejiang Robot Association e capo di un’azienda di robotica ad Hangzhou.
La Cina è il mercato più grande al mondo per i robot industriali: 68 unità ogni 10 mila lavoratori (dati del 2016). Stando alle previsioni della International Federation of Robotics (IFR), entro il 2020 in Cina ce ne saranno 800 mila.
La compagnia di Sun costruisce robot per il rilevamento di misurazioni errate nella logistica, nel settore auto e nella comunicazione in fibra ottica. Nel 2016 ha fatturato 200 milioni di yuan (29 milioni di dollari). Nel 2012, appena fondata, il fatturato arrivava appena a 600 mila yuan.
Del resto il costo del lavoro è destinato ad aumentare a causa della scarsa disponibilità della forza lavoro dovuta al progressivo invecchiamento della popolazione, ha detto Luo Jun, amministratore delegato del think tank International Robotics and Intelligent Equipment Industry Alliance. Ovviamente l’automazione non sarà un processo repentino ma graduale. La speranza è l’ultima a morire: “I lavoratori avranno il tempo di spostarsi in altri comparti industriali”, ha detto Luo.
Non è un mistero che robotica, automazione e intelligenza artificiale hanno un ruolo cruciale nel piano Made in China 2025, che prevede massicci investimenti in dieci settori strategici con l’obiettivo di creare un’industria all’avanguardia. Il XIII piano quinquennale del governo cinese (2016-2020) ha programmato la produzione di 100 mila robot industriali all’anno. Di recente ha fatto scalpore la notizia della prima banca cinese completamente automatizzata.
Sfidare un androide è possibile
Evitare di essere sostituiti da un robot è possibile ma bisogna acquisire due facoltà fondamentali: competenze digitali e capacità di leadership. Per evitare disoccupazione e licenziamenti su larga scala, in parte già causati dal ricollocamento di manodopera nei settori affetti da sovraccapacità produttiva (acciaio e carbone), “la Cina deve trasferire le risorse pubbliche e investirle sui talenti, oltre a riformare il sistema scolastico” per aiutare gli studenti a inserirsi in un mercato del lavoro dominato dall’AI “e ridurre le disuguaglianze regionale tra zone rurali e zone urbane”.
Il percorso scolastico per un lavoratore migrante al di sotto dei trent’anni è di appena 9,8 anni e si interrompe senza concludere la scuola superiore, stando all’Accademia delle Scienze Sociali. Inoltre la manodopera che arriva dalle campagne non ha accesso ai programmi statali di formazione professionale, di cui godono invece i cittadini in possesso di regolare permesso di residenza. In tal senso esiste già un piano d’azione promosso dal ministero dell’Istruzione che punta a rafforzare l’insegnamento delle materie tecnologiche e la ricerca universitaria nell’AI. Entro il 2020, in tempo per le invasioni barbariche.