Quando un pezzo grosso dell'economia digitale sbarca a Wall Street, la curiosità è sempre tanta. Si parla di aziende con modelli di business in rapida e imprevedibile evoluzione, e che spesso non garantiscono entrate immediate agli investitori, chiamati a mantenere la fiducia anche dopo numerose trimestrali in rosso. E i mercati, prima o poi, perdono la pazienza, come insegnano le parabole di Snap e Twitter, che ci ha messo oltre un decennio per arrivare a chiudere un bilancio in utile. La quotazione in borsa di Spotify, la piattaforma di musica in streaming più utilizzata del mondo (oltre 71 milioni di utenti paganti al dicembre 2017, circa il doppio di Apple Music) è però attesa domani con particolare attenzione per una scelta rivoluzionaria destinata a creare un precedente storico: l'azienda svedese è la prima startup che si rivolgerà direttamente al mercato, senza passare per gli investitori istituzionali. Una scommessa rischiosissima ma meditata a lungo: le prime indiscrezioni su quella che è una vera e propria "Ipo senza Ipo" (sigla che sta per "Initial Public Offering", offerta pubblica iniziale) risalgono infatti a quasi un anno fa.
Perché, di solito come funziona?
In una Ipo tradizionale, l'azienda che intende quotarsi vende le azioni da mettere sul mercato a un gruppo di "investitori istituzionali", ovvero banche, fondi di investimento e fondi pensione a un determinato prezzo (l'"initial offering price", o prezzo iniziale dell'offerta). Questa operazione ha un duplice scopo: da una parte garantire che l'offerta parta già con acquirenti dalle spalle robuste in grado di coprirla, dall'altra fissare un prezzo iniziale che sarà poi la base per la quotazione vera e propria, che avviene solitamente il giorno dopo, quando gli investitori istituzionali (che hanno ricevuto dall'azienda una commissione per "gestire" la quotazione) cedono sul mercato aperto le azioni comprate a un prezzo più elevato per recuperare il rischio dell'investimento. E questo il motivo per il quale, al termine della prima giornata di scambi, il prezzo di chiusura del titolo è di solito molto più elevato di quello dell'Ipo.
E invece cosa intende fare Spotify?
Spotify venderà le azioni direttamente sul mercato a tutti gli investitori, senza passare per gli investitori istituzionali. Il prezzo delle azioni dipenderà quindi interamente dal gioco della domanda e dell'offerta; non ci sarà nessuna sottoscrizione e nessun prezzo iniziale a fungere da base. Si tratta di un grosso rischio: Spotify oggi è valutata oltre 20 miliardi di dollari. Se al termine della prima giornata di scambi, la capitalizzazione effettiva sarà considerevolmente più bassa, le altre startup si guarderanno bene dal ripetere l'esperimento.
Allora perché l'azienda si assume un simile rischio?
La scommessa è questa: se la quotazione andrà bene, tutte le entrate andranno agli azionisti di Spotify e ai suoi dipendenti, a partire dall'amministratore delegato Daniel Ek. Non ci sarà quindi alcuna "stecca" da versare a banche e fondi per entrare nel salotto buono delle finanza. "Il punto della quotazione diretta è che più democratica, molto logica, molto internet", osserva ReCode, "si capisce perché a Ek piaccia l'idea". Solo il pubblico degli "investitori generalisti", compresi i pensionati che si giocano in borsa 100 dollari alla settimana, deciderà se valga la pena o no acquistare il titolo Spotify, che avrà come sigla SPOT. Proprio per questo, in mancanza di un prezzo iniziale, le azioni potrebbero vivere una giornata sulle montagne russe.
"Il prezzo al pubblico delle nostre azioni ordinarie potrebbe essere più volatile che con una offerta pubblica iniziale sottoscritta e potrebbe, al momento della quotazione sul Nyse, calare in maniera rapida e significativa", ha avvertito l'azienda. Già con i semplici scambi tra privati, il valore delle azioni di Spotify è stato fortemente volatile, passando nel 2017 da un minimo di 37,50 dollari a un massimo di 125 dollari. Non solo, non esiste un limite temporale entro il quale gli attuali azionisti dovranno tenere le azioni nel proprio portafoglio, a eccezione dei cinesi di Tencent, che non potranno cederle per tre anni.
A proposito, chi sono gli azionisti di Spotify?
Daniel Ek, al momento, detiene una quota del 25,7%. Un altro 13,2% è in mano al cofondatore Martin Lorentzon. Seguono Tencent (7,5%), il fondo Usa Tiger Global (6,9%), Sony Music (5,7%) e il fondo di venture capital Tcv (5,4%). Tutti uniti dalla scommessa di riuscire a portare a casa una grossa torta da non dividere con nessuno. Il restante 35,6% è spezzettato tra azionisti minori. Sony, in particolare, dovrebbe utilizzare le plusvalenze per aumentare le royalty da girare ai propri artisti presenti su Spotify, che spesso lamentano le insufficienti entrate garantite dallo streaming. Goldman Sachs ha ceduto la propria quota lo scorso agosto ma, insieme a Morgan Stanley, è stata consulente di Spotify per una quotazione che, in un modo o nell'altro, farà la storia.