AGI - Oltre 1 milione di dimissioni nei primi 6 mesi del 2022: è l’esodo dei lavoratori con posto fisso, cioè con un contratto a tempo determinato o indeterminato, che hanno deciso di cambiare vita e lavoro. Un fenomeno che, per le sue dimensioni, si è visto assegnare un nome: si parla infatti di “great resignation”, le dimissioni di massa che negli ultimi anni stanno interessando sempre più persone, soprattutto giovani.
Considerando lo stesso periodo di 4 anni fa (2018), come ci mostrano i dati ANPAL Servizi, a dare le dimissioni erano state circa 750 mila persone, quasi il 30% in meno. Ma la vera impennata si è avuta nei primi mesi del 2021, quando si è passati da 350 mila a 490 mila: oltre 100 mila dimissionari in più nel giro di pochi mesi, sfiorando i 2 milioni di dimissioni alla fine dell’anno. Da allora, il fenomeno delle great resignation ha continuato a espandersi.
Un altro trend si sta poi affacciando, almeno in Italia, proprio ora: quello del “job hopping”, la pratica, cioè, di “saltare da un lavoro a un altro” per assicurarsi stipendi più alti e un posto di lavoro con un miglior life-work balance. Job hopping e great resignation sembrano essere la faccia della stessa medaglia: secondo una rielaborazione della società di recruitment Oliver James su dati ANPAL Servizi, infatti, in media oltre il 50% delle persone che ha dato le dimissioni nel 2022 era nuovamente occupata in meno di un mese dall’ultimo rapporto di lavoro cessato.
Le dimissioni avvenute nel contesto delle great resignation sembrano quindi far parte di un percorso con cui si cerca di integrare il lavoro in un progetto di vita più ampio, senza subordinare la seconda al primo, e nel contempo di migliorare la propria condizione. Ne abbiamo parlato con Pietro Novelli, general manager di Oliver James Italia e consigliere di ANPAL Servizi.
Le great resignation segnano la parola fine al mito del posto fisso. Cosa è cambiato secondo lei da ieri a oggi per avere una trasformazione così radicale?
Credo che rispetto a questo fenomeno si possa fare riferimento sia a valutazioni collegate alla pandemia, sia a un mutamento di prospettiva che accompagna il ricambio generazionale. Da un punto di vista di driver di lungo termine, come indicano i dati di Anpal Servizi, si evince come si trattasse di un trend evidente già dal 2018. Una tendenza, quindi, precedente, che si è poi accentuata durante la pandemia. L’intensità del lavoro è elemento centrale del fenomeno, con la conseguente ricerca di flessibilità. La digitalizzazione rende i lavori sempre più intensi e le persone cercano soluzioni e condizioni di lavoro flessibili, fatto, questo, che durante la pandemia è cresciuto in importanza. Anche perché parliamo, tra l’altro, di un periodo molto intenso di lavoro da remoto e a ritmo elevato. Non è da sottovalutare poi il fatto che c’è una vita, un mondo al di fuori del contesto lavorativo. Il primo punto, dunque, è la ricerca di flessibilità dettata dalla crescente intensità del lavoro. Un secondo punto credo possa essere rintracciato nel fatto che nel mercato italiano, composto di piccole e medie imprese, le aziende abbiano avuto spesso carattere familiare, e altrettanto spesso le persone hanno passato la loro vita in una singola azienda o poco più: questo sta cambiando. C’è un macro trend di domanda e offerta, segnato dalla carenza di professionisti per colmare le posizioni lavorative. Gli ultimi dati Anpal e Unioncamere parlano di una percentuale di posizioni non coperte del 46,4%. Aumentano quindi, da una parte, la domanda di professionisti e, dall’altra, la volontà delle persone di avviarsi verso nuovi progetti: i due fattori insieme hanno contribuito a generare un maggior numero di dimissioni.
Una delle cause delle great resignation, poi, sta nelle aziende e nell’incapacità di fare retention di talenti. Cosa devono fare secondo lei le imprese per “tenersi” i lavoratori?
Innanzitutto, soluzioni di lavoro in remote working. Alcune aziende, spesso le pmi, fanno fatica ad adattarsi a quelli che ormai sono considerati degli standard di lavoro ibrido. Ma questo tema è caro a sempre più persone perché permette maggiore flessibilità. In secondo luogo, elementi di formazione. Con la digitalizzazione tutti sentono l’esigenza di aggiornarsi continuamente e un’azienda che metta in primo piano la formazione riuscirà sicuramente meglio ad attrarre e trattenere talenti.
È un fenomeno uniforme o ci sono lavori in cui le great resignation sono più “great” rispetto ad altri? E quali?
Nel caso delle professioni digitali e tecnologiche, che rappresentano il nostro settore di riferimento, esiste il problema per cui spesso non ci sono abbastanza professionisti, abbastanza competenze sul mercato italiano, per far fronte al numero di assunzioni possibili. Le persone di conseguenza sono più sollecitate a perseguire nuove opportunità e a spostarsi verso aziende più interessanti e che mettono in campo politiche attrattive.
Great resignation ma anche job hopping sono due “tendenze” che riguardano in qualche modo il mondo del lavoro. Che conseguenze avranno alla lunga? E queste conseguenze, secondo lei, saranno positive o negative sui lavoratori, sulle aziende e in generale sul mercato del lavoro?
Ci saranno cambiamenti che già stiamo osservando nelle possibilità di lavoro da remoto, dopo la pandemia senz’altro più diffuse sia nelle Pubbliche Amministrazioni che nel privato. Era un tema già presente, ma rispetto ad oggi era ancora minoritario. Vedremo invece trasformazioni radicali e di lungo termine. A Milano, per esempio, rispetto ad alcuni anni fa la pressione del costo della vita è molto maggiore. Offrire la possibilità di lavorare 2 o 3 giorni da remoto permette a chi vuole di passare solo due notti a settimana a Milano. Con il mercato immobiliare alle stelle e l’implementazione di soluzioni di questo tipo, possiamo aspettarci tra le altre cose che le persone preferiranno andare a vivere in centri vicini, facendo commuting, fenomeno che cambierà radicalmente anche la forma della città e la distribuzione di ricchezza e competenze sul territorio.