Lo scorso gennaio ha segnato per gli Stati Uniti la fine di un quadriennio caratterizzato dal contrasto dell’amministrazione Trump ai risultati conseguiti dall’amministrazione Obama in materia di clima, sia sul piano interno sia su quello internazionale. Trump aveva ritirato gli Stati Uniti dallo storico Accordo di Parigi sul cambiamento climatico, mentre il Giappone si era arroccato nel tentativo di resistere alle pressanti richieste di alzare i suoi obiettivi climatici nazionali fino ad allinearli con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e di interrompere la costruzione e il finanziamento di nuove centrali a carbone, sia sul suolo nipponico sia all’estero. Il cambiamento avvenuto rispetto ad allora è davvero epocale: negli ultimi cinque mesi, nessun paese al mondo ha innalzato le proprie ambizioni nazionali sul cambiamento climatico tanto quanto Stati Uniti e Giappone.
A catalizzare il cambiamento è stata l’elezione a presidente di Biden, che ha incentrato la propria campagna sulla serie di priorità climatiche più ambiziosa in assoluto nella storia della corsa alla presidenza degli Stati Uniti. Nello stesso periodo, il Giappone ha cambiato primo ministro, passando da Shinzo Abe a Yoshihide Suga, due figure appartenenti allo stesso partito e con la medesima coalizione di governo. Una situazione che rende alquanto difficile valutare esattamente quale sarebbe stato l’effetto della nuova amministrazione statunitense sull’approccio del Giappone al cambiamento climatico, se Shinzo Abe fosse rimasto in carica.
Un cambio di visione fondamentale
A prescindere da questo, tra il 20 gennaio, giorno dell’insediamento del presidente Biden, e il 22 aprile, giorno della riunione virtuale di Biden con i capi di tutte le principali economie del mondo e con altri attori chiave in apertura del Leaders Summit on Climate, si è avuto un cambiamento fondamentale nella visione del clima di Stati Uniti e Giappone, a livello interno e nazionale come anche a livello bilaterale e multilaterale.
Gli Stati Uniti sono rientrati nell’Accordo di Parigi e si sono dati il nuovo e audace obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 50-52 percento rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030, con un rilancio importante rispetto all’impegno precedente, che puntava a ridurre le emissioni del 26-28 percento rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025. Il presidente Biden ha anche emanato un ordine esecutivo che prevede misure volte a porre fine al finanziamento internazionale dell’energia basata su combustibili fossili ad alta intensità di carbonio, e ha lanciato un approccio whole-of-government al cambiamento climatico, coinvolgendo e impegnando in tal senso ogni singolo ufficio e agenzia, dal dipartimento di Stato al Tesoro, dal dipartimento dell’Energia a quello del Commercio.
Il Giappone si è mosso in modo analogo e con celerità, alzando le proprie ambizioni climatiche. Al Leaders Summit on Climate, il primo ministro Suga ha conquistato i titoli dei giornali con l’annuncio dell’innalzamento dell’obiettivo giapponese di riduzione delle emissioni entro il 2030 dal 26 percento rispetto ai livelli del 2013 al 46 percento, prospettando anche ulteriori “grandi sforzi” per raggiungere il 50 percento. Il Giappone è stato l’ultimo dei paesi del G7 a costruire attivamente centrali a carbone sul suolo nazionale e all’estero, ma già una settimana dopo il Leaders Summit on Climate ha annullato il suo ultimo progetto nazionale di costruzione di nuove centrali a carbone, e il mese successivo, insieme ad altri partner del G7, ha promesso di porre fine, entro l’anno, al finanziamento della produzione di carbone all’estero. Il tema del clima s’intreccia anche con le principali azioni di politica estera con cui l’amministrazione Biden mira a ricostruire e rafforzare le relazioni con alleati e partner, Giappone compreso, come è stato evidente fin dall’inizio, quando la dichiarazione congiunta dei leader del Quadrilateral Security Dialogue (QUAD, composto da Giappone, India, Australia e Stati Uniti) del 12 marzo ha indicato il cambiamento climatico come aspetto centrale della più ampia strategia indo-pacifica del QUAD.
Le prospettive per la partnership climaticatra USA e Giappone
Siamo ormai nella fase successiva, segnata dalla chiara definizione delle ambizioni climatiche e dal loro ancoraggio al livello politico più alto.
Trasformare le promesse in realtà. Naturalmente, sarà di cruciale importanza il modo in cui si lavorerà per conseguire i nuovi obiettivi. Per gli Stati Uniti, l’American Jobs Plan dell’amministrazione Biden indica gli strumenti e gli investimenti necessari ad aumentare la diffusione dell’energia pulita, aumentare l’elettrificazione dei veicoli, decarbonizzare il settore edile, investire nella produzione pulita e proteggere le risorse idriche e terrestri critiche. Sul breve termine, la priorità maggiore è ottenere il supporto del Congresso per questo pacchetto, o almeno per una sua (si spera consistente) parte. Da parte sua, il Giappone quest’anno deve rivedere il proprio piano energetico per renderlo coerente con l’innalzamento dell’obiettivo climatico fissato per il 2030; questo richiederà decisioni molto difficili sul ruolo dell’energia nucleare, sulla capacità del paese di aumentare a breve termine l’energia da fonti rinnovabili, sul ruolo dell’idrogeno e su altro ancora. Il governo giapponese dovrà inoltre colmare le falle residue della sua politica ufficiale di finanziamento della produzione di carbone all’estero, per garantire che anche questa sia all’altezza dell’impegno assunto dalla nazione agli occhi del mondo.
Costruire catene di approvvigionamento di energia pulita di portata mondiale e far avanzare l’innovazione tecnologica. Per conseguire gli obiettivi climatici è essenziale che tutto il mondo s’impegni a potenziare quelle catene di approvvigionamento di energia pulita che si rivelano affidabili e sostenibili. In un recente rapporto sui minerali critici, l’International Energy Agency (IEA) ha avvertito di un “incombente divario tra le rafforzate ambizioni climatiche mondiali e la disponibilità di minerali critici”; si prevede, per esempio, che entro il 2024 raddoppierà la domanda mondiale di litio, materiale fondamentale per le batterie dei veicoli elettrici. Ma con un coordinamento internazionale limitato e le catene di approvvigionamento chiave concentrate in poche nazioni, le catene di approvvigionamento dell’energia pulita rimangono vulnerabili. Di fatto, negli ultimi mesi il Covid-19 ha causato una grave carenza di semiconduttori in tutto il mondo e, con la maggior parte della capacità produttiva concentrata nella Cina continentale e a Taiwan, la catena di approvvigionamento mondiale di semiconduttori potrebbe subire ulteriori interruzioni e risentire delle tensioni geopolitiche. Consci di queste minacce, Giappone e Stati Uniti hanno lanciato la nuova partnership Competitiveness and Resilience (CoRe), finalizzata alla competitività e alla resilienza, in particolare, delle catene di approvvigionamento sensibili, tra cui quella dei semiconduttori, che hanno un ruolo chiave nelle tecnologie energetiche pulite; i due paesi lavoreranno quindi insieme per “guidare una crescita economica mondiale sostenibile e verde” e aumentare la cooperazione per l’innovazione, lo sviluppo e la diffusione dell’energia pulita. Considerando che i governi di tutto il mondo stanno iniziando a mettere in atto i propri impegni sul clima, questa rafforzata cooperazione mondiale per la stabilità delle catene di approvvigionamento e per l’innovazione sarà ancor più essenziale.
Creare un’alternativa pulita alla Belt and Road Initiative (BRI) della Cina. La Cina è di gran lunga il più grande finanziatore del carbone e delle infrastrutture ad alto contenuto di carbonio, a livello mondiale. Secondo i ricercatori del Global Development Policy Center, “tra il 2008 e il 2019 le banche politiche cinesi hanno devoluto a governi esteri quasi 500mila miliardi di dollari in finanziamenti per lo sviluppo, un importo quasi pari ai prestiti erogati della Banca mondiale nello stesso periodo”. Tra il 2000 e il 2019, inoltre, le due banche politiche cinesi di livello mondiale hanno erogato quasi 52 miliardi di dollari in prestiti solo per progetti per il carbone, in tutto il mondo.
Questi investimenti ad alto contenuto di carbonio sono semplicemente inconciliabili con la profonda decarbonizzazione cui è necessario procedere nell’arco del prossimo decennio e fino al 2050, se si vuole evitare che la temperatura mondiale manchi l’obiettivo dell’Accordo di Parigi e gli 1,5 gradi Celsius di riscaldamento globale indicati dall’International Panel on Climate Change (IPCC) come soglia critica. Tuttavia, nonostante la crescente opposizione internazionale ai progetti infrastrutturali inquinanti, la Cina non ha annunciato alcun orizzonte temporale per la graduale cessazione del proprio sostegno alle centrali a carbone all’estero e dei suoi altri investimenti infrastrutturali che minano la prospettiva di una crescita economica pulita e sostenibile. Ora che il Giappone si è finalmente impegnato, insieme con Stati Uniti e Corea, a porre fine ai finanziamenti per la produzione di carbone all’estero, la Cina si trova isolata. Stati Uniti e Giappone possono e devono lavorare insieme e con i loro partner per aumentare la pressione sulla Cina e indurla a un cambio di rotta, facendo leva sulla loro influenza e sul loro potere di voto in istituzioni e consessi internazionali quali la Banca mondiale e il G20. Stati Uniti e Giappone potrebbero sollevare la questione in vista della UN Climate Change Conference (COP26) che si terrà a Glasgow il prossimo novembre, ma devono al contempo progettare un percorso di sviluppo più pulito e mettere a disposizione finanziamenti alternativi ai paesi che attualmente si rivolgono alla Cina. La buona notizia è che sono già state gettate delle basi: nel 2019 gli Stati Uniti, insieme con Giappone e Australia, hanno lanciato il Blue Dot Network, che mira a certificare gli investimenti infrastrutturali per garantirne la sostenibilità ambientale e sociale. L’iniziativa è rimasta a lungo dormiente, ma ha acquisito slancio con l’amministrazione Biden. A giugno, Stati Uniti, Giappone e i partner del G7 sono andati ancora oltre, con il lancio di Build Back Better World (B3W), un nuovo partenariato volto a “contribuire a ridurre il fabbisogno di oltre 40mila miliardi di dollari in infrastrutture dei paesi in via di sviluppo”. Ora i partner dovranno lavorare all’elaborazione e all’attuazione di una strategia che consenta al B3W di competere efficacemente con la BRI, impresa, questa, che impone una cooperazione strategica senza precedenti con istituti finanziari internazionali quali Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Green Climate Fund, oltre alla mobilitazione di nuove risorse pubbliche e private.
Accelerare la transizione verso l’energia pulita nel sud-est asiatico e in tutto l’Indo-Pacifico. Mentre il B3W deve essere competitivo a livello mondiale, Stati Uniti e Giappone possono avere un impatto positivo sul sud-est asiatico in particolare, dove la domanda di elettricità cresce a un ritmo tra i maggiori al mondo, in una delle poche regioni la cui capacità del carbone è in espansione, con quasi 20 gigawatt di nuova capacità di generazione alimentata a carbone in fase di costruzione. La crescente necessità di sviluppo di nuove infrastrutture offre l’opportunità di cambiare il futuro energetico della regione eliminando gradualmente gli investimenti sui combustibili fossili. Il Giappone si posiziona particolarmente bene in questo senso, dato che si è adoperato per aumentare lo sviluppo di progetti infrastrutturali nel sud-est asiatico, a dispetto dei massicci investimenti cinesi nella regione.
Stati Uniti e Giappone possono anche lavorare insieme a plasmare il futuro dello sviluppo delle infrastrutture mondiali su una scala regionale ancora più ampia. In giugno è stata lanciata “U.S.-Japan Climate Partnership on Ambition, Decarbonization, and Clean Energy”, che si concentrerà in particolare sulla riduzione delle emissioni nette nell’In- do-Pacifico, promuovendo lo sviluppo di infrastrutture rispettose del clima e il flusso di capitali pubblici e privati verso attività climaticamente allineate. Data la presenza, nella regione, di paesi ad alta vulnerabilità – tra cui piccoli stati insulari in via di sviluppo quali Fiji, Timor Est e Maldive – Giappone e Stati Uniti dovranno garantire che questi nuovi progetti pongano al centro la resilienza.
In sintesi, pur nel permanere di sfide dalle proporzioni enormi, Stati Uniti e Giappone hanno dimostrato che bastano pochi mesi perché una nazione faccia grandi progressi in materia di cambiamento climatico, a condizione che vi siano volontà e determinazione. Ora dovranno dimostrare di saper mantenere questo ritmo sostenuto finché la crisi climatica non sarà almeno sotto controllo.
*Pete Ogden è vicepresidente per l’energia, il clima e l’ambiente presso la Fondazione delle Nazioni Unite. In precedenza, è stato Senior Fellow per International Energy and Climate Policy presso il Center for American Progress. Durante l’amministrazione Obama, ha prestato servizio alla Casa Bianca come Direttore senior per l’energia e i cambiamenti climatici presso il Consiglio per la politica interna.
* Evelin Eszter Tóth è analista del team Clima e Ambiente presso la Fondazione delle Nazioni Unite, dove si occupa di politica e ricerca internazionali sul clima. Articolo pubblicato sul numero di luglio 2021 di WE World Energy
“WE World Energy è il magazine internazionale sul mondo dell’energia pubblicato da Eni - diretto da Mario Sechi - che con il suo portato di esperienza e scientificità si è guadagnato una posizione di grande rilievo nel panorama internazionale dei media di settore”.