AGI - Potrebbe valere più di 18 miliardi il rischio che grava sulle principali aziende italiane per effetto dei cambiamenti climatici cui stiamo andando incontro. La stima è stata presentata a Milano da CDP (ex Carbon Disclosure Project), organizzazione internazionale non-profit che aiuta imprese e città a rendicontare e a divulgare il proprio impatto climatico, nel corso del workshopannuale organizzato dalla Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM)“Methodologies and Tools to Evaluate the Financial Impact of Climate-Related Risks and Opportunities” a cui hanno partecipato rappresentanti di centri di ricerca, di società di consulenza e di imprese che hanno sviluppato e sperimentato metodi di analisi per la valutazione del rischio climatico. Si tratta della cosiddetta climate-related financial disclosure (lanciata dal Financial Stability Board nel 2017), da tempo oggetto di studio da parte dei ricercatori FEEM.
“Sono ormai tre anni – ci dice Stefano Pareglio, Coordinatore scientifico del Programma di ricerca “Firms and Cities Transition towards Sustainability”, promotore dell’evento – che, in autunno, organizziamo in Fondazione un incontro internazionale dedicato a questo tema. È un appuntamento al quale partecipa un network ormai consolidato di imprese, ricercatori e analisti, interessati a questo argomento. Siamo davvero lieti di essere riusciti a dare visibilità a una tematica che ora è al centro dell’attenzione di istituzioni, legislatori, regolatori e dunque delle imprese e della comunità finanziaria”.
Il tema della valutazione del rischio associato ai cambiamenti climatici è però una questione non facile da affrontare, soprattutto se riferita all’attività di una singola impresa. Molte aziende sono oggi impegnate nel comprendere quale sia la componente di rischio che grava sui loro asset o sui loro mercati, e per far ciò, ricorrono alle linee guida della Task Force on Climate-Related Financial Disclosures (TCFD, 2017) e alla versione aggiornata delle Linee guida non vincolanti sulla rendicontazione non finanziaria della Commissione Europea (NBG, 2019). Allo stesso tempo, gruppi di riflessione, centri di ricerca e fornitori di dati hanno proposto diverse metodologie e approcci per eseguire tali valutazioni, ampliando notevolmente lo spettro degli strumenti disponibili.
Il workshop organizzato dalla Fondazione ha avuto come scopo quello di offrire una panoramica sulle metodologie sviluppate, sul loro funzionamento e sulla relativa affidabilità, offrendo un terreno di confronto ad aziende e società in termini di gestione del risparmio, per individuare i benefici che derivano dall’utilizzo di tali metodologie, e identificare anche le difficoltà e le barriere che riscontrano nell’adozione delle stesse.
La rendicontazione è importante ma complessa
“I rischi derivanti dal cambiamento climatico – spiega Riccardo Spani, Ricercatore del Programma di ricerca “Firms and Cities Transition towards Sustainability” di FEEM – sono sempre più rilevanti per le imprese, soprattutto quelle quotate, e per gli operatori finanziari. Le prime sono esposte rispetto alla loro operatività, che potrebbe subire battute d’arresto, e sono dunque chiamate a intraprendere un rapido processo di transizione verso un business più sostenibile. I secondi rischiano invece di incorrere in una riduzione dei rendimenti di alcuni investimenti o di ritrovarsi nel portafoglio asset incagliati (ossia investimenti privi di ogni prospettiva di redditività). Per questo motivo, sono nate in tutto il mondo iniziative legate alla rendicontazione dell’impatto che il cambiamento climatico ha sull’impresa (oltre all’impatto che l’impresa ha sul clima). Tale esercizio ha un duplice obiettivo: aumentare la consapevolezza delle società circa il tema del cambiamento climatico, incentivandole ad intraprendere un percorso di decarbonizzazione; informare i vari stakeholders circa l’impegno che l’impresa ha assunto rispetto alla lotta al climate change, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi fissati dagli Accordi di Parigi. Pertanto, sulla spinta di istituzioni, governi e di autorità di controllo sovranazionali, un numero crescente di società e di operatori finanziari ha adottato delle strategie di business che diano evidenza del proprio impegno e, nel caso delle società che operano nel settore finanziario, che favoriscano l’allineamento dei relativi portafogli. Il punto è che l’adeguamento agli obblighi di rendicontazione ha tempi stringenti e margini rilevanti di incertezza”.
Inoltre, la complessità analitica di alcune attività contribuisce a rendere l’esercizio di compliance ancora più gravoso. Ad esempio, effettuare l’analisi di scenario climatico richiede delle competenze specifiche che molte aziende non possiedono. Un discorso analogo può essere fatto per quanto riguarda la quantificazione degli impatti finanziari dei rischi e delle opportunità legati al cambiamento climatico. Per colmare queste lacune, le aziende si rivolgono a società specializzate.
“Si tratta – aggiunge il ricercatore FEEM – di società che, tramite l’applicazione di una grande mole di dati ai modelli climatici di riferimento, sviluppano strumenti operativi utili alle aziende per calcolare la loro esposizione al rischio. La centralità di questa attività è confermata anche dalla crescente attenzione che alcuni attori del settore finanziario, quali società di rating e società di consulenza, rivolgono a queste società specializzate. Giusto per fare qualche esempio: nel 2019 MSCI e Moody’s hanno acquisito rispettivamente Carbon Delta e Four Twenty Seven, mentre nel 2020 Acclimatise è diventata parte della società di consulenza Willis Towers Watson”.
Gli spunti emersi dal seminario FEEM
“CDP (ex Carbon Disclosure Project) – spiega ancora Spani – segnala che esiste un sostanziale squilibrio tra la disclosure relativa all’impatto finanziario delle opportunità rispetto a quella relativa ai rischi, in termini di approfondimento e di esiti monetari. Questa fattispecie, da una parte costituisce una criticità e come tale deve essere tenuta in debita considerazione dai mercati finanziari e dagli asset manager al momento della definizione dei prezzi e dei portafogli, mentre dall’altra rappresenta un’occasione per gli investitori per ingaggiare le aziende e incentivarle ad intraprendere un adeguato percorso di decarbonizzazione. Appare dunque evidente il ruolo chiave della rendicontazione per gli stakeholder, sia perché amplia lo spettro delle informazioni disponibili, sia perché permette a soggetti diversi di raggiungere un elevato grado di integrazione. A livello globale il processo di rendicontazione sta crescendo: c’è stato infatti un incremento del 14% delle aziende rispetto al 2019: sono 9.600 aziende che rispondono al questionario CDP (più del 50% del market cap globale). Tuttavia, vi sono sostanziali differenze tra settori. Circa l’80% delle società dei settori maggiormente esposti al cambiamento climatico (energetico, minerario, dei combustibili fossili) identificano chiaramente i rischi che ne derivano, mentre delle aziende non esposte (i.e. moda e servizi) meno del 50% compie tale analisi. Inoltre, viene rilevato uno squilibrio nella rendicontazione tra rischi fisici e quelli di transizione, a favore di questi ultimi”. “CDP – prosegue Spani – riporta anche i dati relativi alla stima degli asset incagliati, i quali ammonterebbero a circa 252 miliardi di dollari statunitensi per le 500 società più grandi del mondo in termini di capitalizzazione. A livello nazionale, secondo CDP l’impatto del cambiamento climatico per le prime 59 società italiane è di circa 18,2 miliardi di euro”.
“Alcuni asset manager e rappresentanti di società di gestione del risparmio che partecipavano alla tavola rotonda hanno sollevato altre questioni rilevanti. La prima – continua Spani – fa riferimento alla trasparenza dei dati raccolti. Alcuni data provider hanno un elevato grado di trasparenza relativamente alla composizione e alla provenienza dei dati offerti, mentre altri risultano più “opachi”. In secondo luogo, viene rilevato che, in generale, per i dati relativi alle emissioni di scopo 1 e 2 [emissioni dirette e indirette, ndr] le basi dati sono solide, come confermato anche da alcuni studi scientifici. Ciò non si riscontra per le emissioni di scopo 3 [emissioni che sono conseguenza delle attività di un’azienda ma che scaturiscono da sorgenti di gas serra, ovvero da unità fisiche o processi che rilasciano GHG in atmosfera, di proprietà di altre aziende o controllate da altre aziende, ndr], le quali però sono decisive per il calcolo dell’esposizione al rischio derivante dal cambiamento climatico, poiché tengono conto dell’intera catena del valore, permettendo la tracciatura completa delle emissioni dell’azienda. Questo squilibrio deriva in larga parte dalla natura stessa dei dati. In effetti, le emissioni di scopo 1 e 2 sono più facili da tracciare delle emissioni di scopo 3, che richiedono un grande sforzo in termini di dialogo e integrazione con i fornitori e i clienti, mentre le prime rientrano invece in un perimetro più ristretto legato all’operatività dell’azienda, e dispongono già di schemi di rendicontazione e di certificazione consolidati”.
Un’altra criticità emersa attiene alla scarsa diffusione di politiche di remunerazione del top management connesse a obiettivi di sostenibilità. Come rilevato anche nel recente Rapporto realizzato da FEEM in collaborazione con Carbonsink, solo il 66% delle società che fanno parte del FTSE MIB prevede uno schema di retribuzione di questo tipo (con incentivi soprattutto di breve termine). Ciò dimostra come la questione venga sì identificata come materiale dalla maggior parte delle società del paniere analizzato, ma risulti ancora non pienamente matura.
Altrettanto importante è l’approccio utilizzato in sede di valutazione dei portafogli. Una visione forward-looking è preferibile, in quanto consente di avere un’idea della strategia delle aziende per gestire la loro esposizione e intraprendere un percorso di decarbonizzazione. “Infine – chiarisce il ricercatore nelle conclusioni del seminario – il tema più rilevante in termini strettamente operativi è quello relativo al livello di standardizzazione della reportistica. Un elevato grado di omogeneità nella disclosure dei rischi è certamente utile, ma una maggiore flessibilità (ispirata da un approccio basato sulla materialità) consente di catturare aspetti specifici che rischierebbero di sfuggire in sede di valutazione e che sono spesso decisivi in termini decisionali”.
Le tipologie di rischio e la variabile temporale
I metodi utilizzati per valutare l’esposizione al rischio climatico per le imprese variano molto tra loro e il seminario ha fornito una ampia panoramica di alcuni tra quelli più recenti. “I rischi derivanti dal cambiamento climatico – prosegue a spiegare il ricercatore FEEM – sono molti e gli operatori implementano strategie differenti per valutarli. Per esempio, alcuni valutano solo l’impatto dei soli rischi fisici acuti (ondate di calore, alluvioni, eventi catastrofici), mentre altri invece prendono in considerazione solo i rischi fisici cronici (variazione delle temperature medie, delle precipitazioni annuali e così via).
Altri ancora invece analizzano sia i rischi fisici, sia quelli di transizione [rischi connessi con le modalità di passaggio verso un'economia a bassa emissione di carbonio, ndr]. Inoltre, occorre considerare anche che i rischi sono diversi tra loro, e non tutte le metodologie adottano il medesimo approccio di valutazione. Un caso emblematico è quello legato alle anomalie nelle temperature. Come si vede nella Figura 1, alcuni modelli tengono conto della frequenza e/o dell’intensità con le quali si verificano temperature estreme, mentre altri analizzano solo le ondate di calore o di gelo.”
La figura qui sotto sintetizza i rischi esaminati da alcuni strumenti.
Fonte: I4CE “Getting started on Physical climate risk analysis in finance - Available approaches and the way forward”, 2018
Anche l’orizzonte temporale di riferimento rappresenta un elemento importante, poiché non tutte le metodologie, esaminando rischi diversi, condividono la medesima impostazione. Alcuni approcci, quali per esempio quelli sviluppati da Acclimatise e Four Twenty Seven, per effettuare le analisi tengono conto degli eventi passati, mentre altri tengono invece in considerazione solo le condizioni climatiche presenti. Altri ancora basano i loro calcoli unicamente sugli scenari climatici futuri. A tal proposito, si osserva che le metodologie che esaminano solo i rischi fisici tendono ad adottare con maggior frequenza una visione backward o present-looking, mentre nel caso dei rischi di transizione vi è una preferenza per un’ottica forward-looking.
Questione di metodi per le valutazioni
“In generale – continua il ricercatore FEEM – appare utile osservare che quando si tratta di valutare l’impatto finanziario dei rischi legati al cambiamento climatico, si predilige, ove possibile, un approccio a livello di singolo oggetto o progetto, soprattutto se l’analisi riguarda i rischi fisici. Pertanto, occorre comprendere dove hanno luogo le attività maggiormente a rischio da parte dei soggetti interessati. Questo ragionamento viene spesso applicato con riferimento alle fasi operative e di downstream (relative alla trasformazione delle materie prime in prodotti finiti; ad esempio, nel settore oil and gas sono quelle che riguardano la raffinazione del greggio) con l’adozione di metodologie asset specific o revenue specific. Invece, relativamente alla fase di upstream (quella che identifica le fasi operative iniziali, ossia di approvvigionamento delle materie prime; ad esempio, nel settore oil and gas sono quelle che fanno riferimento alle attività di esplorazione e le prime fasi di produzione), l’analisi viene svolta a livello di paese o di settore.
Questo metodo bottom-up presenta grandi vantaggi in termini di copertura geografica e di risoluzione, e per effettuare questo genere di analisi si può far ricorso a due tipologie di strumenti: modelli progettati appositamente per una determinata regione geografica; modelli generalizzati che siano in grado di fornire dati specifici sulle regioni interessate. Ad esempio, un primo caso è rappresentato da un modello che copre tutto il territorio francese con una risoluzione pari a 12 km; un secondo esempio riguarda la combinazione di modelli globali e dati relativi alle relazioni statistiche che intercorrono tra i parametri e le variabili da calcolare. La NASA, utilizza i dati contenuti nei modelli climatici IPCC e li applica alle regioni d’interesse con una risoluzione di circa 25 km”.
A questo approccio dal basso, se ne possono affiancare altri che potremmo definire top-down. “Willis Towers Watson – rileva Spani – propone il seguente percorso analitico (che applica anche per la valutazione dei rischi fisici): analisi dell’esposizione al rischio dell’azienda, stima delle potenziali perdite secondo lo scenario climatico attuale, definizione dell’orizzonte temporale d’interesse, identificazione degli scenari climatici rilevanti, applicazione di tali scenari e stima delle potenziali perdite secondo ciascun scenario, con determinazione del valore monetario del rischio al quale è esposta la società, nonché delle azioni di mitigazione necessarie e infine formulazione delle raccomandazioni per la gestione dei rischi individuati”.
“Vivid Economics, invece – conclude Spani – prima identifica gli scenari di settore rilevanti (sia per quanto riguarda l’evoluzione delle politiche e delle normative, sia per quanto concerne i rischi fisici), poi provvede ad applicare shock economici che impattano direttamente o indirettamente l’azienda (modifiche nella domanda, variazioni di prezzo, incremento nei costi diretti e indiretti, danni alle infrastrutture, etc.), quindi individua azioni di mitigazione dei rischi (tenendo conto anche del mutamento della competitività del mercato) e infine traduce in moneta gli impatti per le varie asset classes”.
Articolo realizzato in collaborazione con FEEM