AGI - Dopo aver prodotto mascherine in serie per mesi, tornare a cucire camicie di lusso significa tornare alla creatività e alla libertà: un segnale di speranza. “Il 2020 è un anno perso, potrebbe pensare qualcuno. Invece no, quest'anno ci ha insegnato a lavorare meglio, a capire l’importanza di ciò che facciamo, a non dare nulla per scontato”.
A parlare è Cristina Gennaioli, titolare dello stabilimento Gap di Città di Castello, un’azienda tessile specializzata da tre generazioni in camicie per brand di lusso a livello mondiale, che per qualche mese, costretta a mettere in stand by il business principale causa Covid, ha scelto di riconvertirsi nella produzione di mascherine chirurgiche.
“Non è nel nostro dna e non è stato conveniente, ma ci ha consentito di tenere la macchina accesa e in movimento, di tenerci pronti per ripartire”. E la ripartenza è arrivata perché oggi, il 100% dei circa 65 dipendenti - soprattutto giovani donne - è tornato al proprio lavoro originario: la produzione di camicie da uomo e da donna da vendere ai brand di lusso italiani ed esteri, con sede a Parigi e a New York.
“Per le nostre sarte, abituate a confezionare prodotti d’eccellenza, stare otto ore al giorno a cucire mascherine in tessuto non tessuto, tutte uguali, non è stato facile – racconta l’imprenditrice – tanto che a un certo punto abbiamo scelto di creare anche mascherine ‘fashion’ colorate, soprattutto per risollevarci il morale, e le abbiamo vendute in Cina e in America”.
Sulle mascherine guerra al ribasso, vince la Cina
Oggi produrre mascherine fatte a mano non sembra più conveniente: “Il mercato è fermo, fatichiamo a vendere le nostre, c’è una guerra al prezzo, una guerra al ribasso. Siamo tornati ai tempi in cui i dpi venivano acquistate solo dalla Cina”.
Ma per fortuna, di mascherine, la cui produzione alla Gap continua solo in minima parte, non c’è più bisogno: gli ordini dei clienti sono tornati ad essere sufficienti per tornare alla normalità. I dipendenti in cassa integrazione sono ormai meno di una decina e restano a casa a rotazione, quando il lavoro diminuisce a causa di qualche difficoltà nei lanci delle collezioni dei clienti. A dicembre, però, si è ricominciato a lavorare a pieno ritmo.
“È il momento di campionari – sottolinea - a livello di programmazione del lavoro siamo tornati ai livelli pre-Covid, ma ora bisognerà vedere quello che i brand riusciranno a vendere, lo vedremo a fine gennaio”.
Se gli ordini di camicie stanno tornando a essere consistenti, è soprattutto grazie ai mercati asiatici. “I nostri clienti operano a livello mondiale – spiega - pur avendo avuto un forte calo delle vendite in Europa e in America, dove il Covid ha frenato significativamente la voglia di fare shopping, in Asia il mercato ha resistito, anzi, adesso è in importante ripresa”.
Intanto lo stabilimento di Città di Castello produce anche tute monouso per il personale sanitario “per spirito di collaborazione, perché ce n’è ancora estremamente bisogno”, ma pensa soprattutto al futuro. “Siamo stati messi a dura prova – racconta Cristina – ma abbiamo risposto adattandoci alle difficoltà e mettendoci in gioco. Ogni giorno è una ripartenza, credo che possiamo andare solo verso un miglioramento”.