AGI - Il colpo di coda del Covid arriverà nei prossimi mesi, quando scadranno gli aiuti straordinari del governo per la cassa integrazione e la liquidità delle aziende. E sarà, dicono le previsioni, una mattanza: fra 40 e 70 mila aziende chiuderanno i battenti a causa dei contraccolpi dell'epidemia, che ha devastato produzione e domanda. Il Paese dovrà fare i conti con un’ondata anomala di chiusure. Un sisma che coninvolgerà l’intero sistema Paese. Ne parliamo con Italo Soncini, managing director di Alvarez & Marsal, società di consulenza, turnaround e restructuring presente in tutto il mondo.
Cosa sta avvenendo oggi a livello economico in Italia e più in generale nel mondo?
A livello mondiale, come conseguenza e come rimedio contro gli effetti negativi della pandemia, i mercati finanziari e chi riesce ad accedervi, stanno beneficiando di un’immissione di liquidità da parte delle banche centrali mai vista prima. Ma solo le aziende che operano in alcuni settori specifici, come il farmaceutico, la logistica e l’on-line oppure particolari player con l’innovazione nel DNA, riescono realmente a capitalizzare i frutti di questo eccezionale sostegno.
L’innovazione diventa il terreno su cui si gioca la partita della nuova normalità?
I player realmente innovativi, per sfruttare il cambiamento dei costumi dei consumatori (ad esempio per il ricorso agli acquisti on line per nuovi beni e per l’aumento dei volumi sui beni tradizionalmente già cambiati), anziché “tirare il freno a mano”, hanno investito in tecnologia, in sicurezza della stessa e nell’adeguamento del proprio modello operativo per poter cogliere gli spostamenti di quote di mercato creati da tale discontinuità.
In questo contesto come si pongono le imprese italiane Quali sono le caratteristiche delle imprese italiane?
È ormai quasi banale ripetere che le aziende italiane, in larga misura, si caratterizzano per essere sottodimensionate, anche quelle grandi sono piccole rispetto ai player internazionali (si guardi WeBuild che, pur essendo il campione italiano delle costruzioni e grandi opere, si confronta con player internazionali francesi o cinesi “n” volte più grandi) perché in diversi casi si è pensato a diversificare invece che a investire nel core business (ad esempio il caso del Gruppo Benetton per il quale il core business tradizionale è diventato gradualmente sempre più residuale a fronte di player internazionali come H&M e Zara che invece sono cresciuti nel business tradizionale investendovi ingenti risorse). Spesso sono non quotate.
E qui la questione è quasi culturale
Anni fa un imprenditore amico di famiglia proprietario di un’azienda leader del proprio mercato mi portò a fare un giro per uno dei propri stabilimenti di domenica dicendomi “... se fossi quotato quello che vedi non sarebbe tutto mio e non avrei lo stesso piacere a fare una passeggiata in azienda ...”. Ricorrono all’indebitamento, forse sono finiti i tempi in cui era vero il detto che governava la distribuzione della ricchezza prodotta dalle imprese “... azienda ricca e famiglia povera..” e quindi è la banca a finanziare anche quella parte dell’attivo che invece dovrebbe essere coperta dal patrimonio netto, penso al caso di Mercatone Uno nel quale, grazie ad una serie di operazioni finanziarie, la proprietà dei punti di vendita era dei soci e non della società operativa. Poco managerializzate, è difficile riconoscere che i propri eredi sono meno bravi di se stessi, ma soprattutto meno bravi dei manager dei concorrenti che ti stanno “rubando” cliente per cliente. E infine hanno un’attenzione alla digitalizzazione troppo recente e reattiva, spinta dalla pandemia, piuttosto che proattiva, trainata dalle priorità per la crescita aziendale. Banale, ma vero.
Come influiscono queste particolarità sul modo in cui queste rispondono alla crisi?
Al primo stormir di fronda, viste queste fragilità, l’azienda traballa e rischia di crollare. Il Covid non è certo uno stormir di fronde, ma uno tzunami e quindi la risposta è stata “all’italiana”: generosa, geniale ma, salvo qualche eccezione, allo stesso tempo tardiva, destrutturata e concitata. Parecchie imprese italiane, piuttosto che chiedersi come sopravvivere e cogliere le opportunità che la crisi avrebbe - e per alcuni ha - portato hanno chiesto cosa potesse fare lo Stato. Reagire e chiedere un aiuto al Sistema Paese sono due aspetti che devono coesistere, altrimenti anche lo sforzo dello Stato, ad esempio con la garanzia Sace per i finanziamenti, rischia di essere frustrato dalla mancanza di reattività ai cambiamenti indotti dalla pandemia.
Quanto conta la digitalizzazione? In Italia a che punto siamo?
La digitalizzazione è uno degli elementi essenziali per sopravvivere allo tsunami, in quanto consente di cambiare abitudini aziendali e di anticipare o rispondere agli stimoli di mercato in tempi 4.0, ben diversi dai tempi a cui si era abituati a rispondere prima. È sempre la tecnologia a garantire maggiore efficacia commerciale (conoscenza del cliente, gestione delle sue esigenze, targettizzazione, ...), migliore visuale strategica (fornendo dati con un semplice click a panel di operatori, ricevi informazioni che ti indicano tendenze e novità), efficienza operativa (numero di operazioni per addetto, snellimento dei processi, dematerializzazione dei documenti) e più risorse qualificate libere dalle attività più routinarie per concentrarle sui task critici dettati dalla pandemia.
E le PMI? Come se la passano
Dopo periodi di pigrizia o disattenzione imprenditoriale e manageriale, improvvisamente il tasso di attenzione alla digitalizzazione, in particolare delle PMI italiane, sale significativamente e le aziende iniziano a confrontarsi con serietà con e-commerce e sales force automation, che però rappresentano solo la punta dell’iceberg della digitalizzazione. Un approccio strutturato alla digitalizzazione aziendale va inteso come digitalizzazione dell’intera catena del valore in modo da poter raggiungere l’accelerazione dell’intera impresa e non solo di quelle aree aziendali che appaiono di più immediata strategicità
Il Governo ha previsto una serie di aiuti per le imprese, come valutate questo tipo di politica?
Direi che il nostro debito pubblico, unito all’assetto di Governo e a una burocrazia che è diventata più un fine che un mezzo, hanno portato ad un supporto da parte dello Stato inadeguato, soprattutto se confrontato con quanto fatto dai sistemi paese in cui operano le concorrenti delle nostre imprese (pensiamo in particolare Germania e Francia). Inoltre, uno sforzo importante in termini di risorse impiegate a sostegno delle imprese è stato frustrato dall’incapacità di far funzionare la macchina dello Stato al servizio di chi avrebbe dovuto beneficiare del supporto.
Un ricorso eccessivo agli aiuti?
Garanzia ai finanziamenti, CIG, deroga alle disposizioni societarie in materia di ricostituzione del capitale, rinvio di parte delle scadenze fiscali/contributive e, dall’altro lato, gli strumenti di sostegno al reddito e quindi ai consumi, avrebbero dovuto rappresentare solo una piattaforma iniziale (peraltro solo parzialmente realizzata) su cui costruire il rafforzamento della nostra politica industriale nei settori strategici cogliendo la discontinuità del Covid. Penso agli esempi di USA e UK che, grazie ad importanti finanziamenti ad aziende farmaceutiche per lo sviluppo del vaccino (Pfizer, Moderna, Astra Zeneca), hanno creato un gap competitivo a favore di questi loro campioni di cui godranno i benefici per parecchio tempo.
Cosa dovremmo aspettarci per il futuro?
Credo che il futuro prossimo sarà caratterizzato da un crescente numero di crisi aziendali, anche di imprese di grandi dimensioni, che lo Stato dovrà gestire in un’ottica di politica industriale cercando di salvaguardare l’asset produttivo del paese. Purtroppo, e qui arriviamo ad un altro limite dell’azione a supporto delle imprese, il contesto normativo per la gestione delle crisi aziendali è inadeguato a gestire una normale crisi e, a maggior ragione, una crisi 4.0 sistemica. Si pensi che la legge sulle amministrazioni straordinarie, che dovrebbe rappresentare lo strumento normativo per mettere in sicurezza le grandi imprese e quindi garantire la tenuta di un settore e del suo indotto, è una legge che risale al 1999 e che è stata innovata almeno un paio di volte (c.d. Legge Marzano e Legge Alitalia) creando ulteriori complessità procedurali. Io ritengo invece che un’impresa di grandi dimensioni, se economicamente e aziendalmente meritevole, debba poter uscire dallo stato di difficoltà grazie al giusto contesto normativo, i giusti attori esperti di ristrutturazione, che ne facilitino il rilancio anche e soprattutto nell’interesse del Sistema Italia.
All'estero come funziona?
Prendiamo ad esempio in USA, con gli strumenti normativi a disposizione, uno fra tutti, il Chapter 11, nel quale grazie ad una tempestiva nomina di un “Chief Restructuring Officer” da parte dell’organo giudiziario, di concerto con il debitore e i maggiori creditori, nel giro di pochi mesi si riesce a salvare gli asset che hanno valore ed interesse per il sistema e liquidare (riducendo quindi i danni per i creditori) quanto non è reputato strategico o meritevole di proseguire l’attività. Anche questo ci porta ad uno svantaggio competitivo importante rispetto a sistemi paese concorrenti.
E anche la pandemia ha avuto un ruolo in questo senso…
Nei grandi gruppi internazionali con i quali lavoriamo, la pandemia è stata spesso l’occasione per ripensare al modello di business con l’obiettivo di cambiare l’assetto organizzativo, produttivo, commerciale e tecnologico per migliorare il posizionamento di mercato dell’impresa. Quindi, ricorrendo a investimenti rilevanti, sono stati avviati progetti strategici per cogliere le opportunità derivanti dalla discontinuità portata dalla pandemia (è una parola che ho ripetuto più volte ma è proprio questo aspetto chiave che crea la potenziale opportunità di crescita).Con questi processi evolutivi in atto, quindi mettendosi una mano in tasca per finanziarie i relativi investimenti, le grandi imprese si sono confrontate con lo Stato chiedendo anche un supporto finanziario ma soprattutto normativo che supportasse il cambiamento.
Insomma un approccio molto diverso da quello italiano?
Sì, una delle principali differenze è che le imprese prima hanno fatto i compiti a casa sul cambiamento e poi hanno chiesto gli strumenti di supporto allo Stato per perseguirlo. Ne è conseguito che la burocrazia degli altri sistemi paese si è trasformata in una naturale alleata del cambimento e quindi in una risorsa strategica per la riuscita della sopravvivenza prima e dello sviluppo poi del sistema industriale nazionale.