AGI - Con l'invito a comparire davanti alla commissione per il Commercio del Senato inviato agli amministratori delegati di Facebook, Twitter e Google, si riaccende il dibattito negli Stati Uniti sulla 'Sezione 230'. Ma cos'è la "Sezione 230"? Si tratta di una nota del Communications Decency Act introdotta nel 1996 in cui si afferma: "Nessun fornitore di un servizio informatico interattivo può essere considerato l'editore di qualsiasi informazione pubblicata da un altro fornitore di contenuti informativi".
In sostanza, sono queste poche parole a consentire a Twitter, Facebook e Google di non essere responsabili di tutto ciò che viene postato dagli utenti sulle loro piattaforme. È chiaro quindi che mettere le mani su questa norma potrebbe minare alle basi la tenuta dei social network. Dire che le piattaforme sono responsabili di tutto, come lo è un giornale per ogni articolo pubblicato, renderebbe ingestibile per i social la gestione dei reclami e delle cause, che potrebbero cominciare a intasare gli uffici legali delle società.
Responsabilità degli editori per i social
Non è un caso che i social abbiano sempre rigettato l'idea di considerarsi 'editori' dei contenuti pubblicati, rispondendone in toto dal punto di vista legale. Zuckerberg lo ha detto chiaramente durante le sue audizioni al Congresso americano nel 2018 ("Siamo in parte responsabili di ciò che viene pubblicato, ma non produciamo contenuti", disse allora).
La "Sezione 230" è molto dibattuta. Per gli oltranzisti della libertà di parola, Facebook, Twitter o Google non dovrebbero essere responsabili di nulla. Per i critici, la legge ha (piu' o meno direttamente) concesso alle piattaforme uno scudo normativo che ha permesso loro di ignorare i rischi legati ai contenuti nocivi. O quantomeno, in assenza di un pungolo, di ritardare gli interventi degli ultimi anni.
La Sezione, d'altronde, è del 1996 e (come si nota sin dal vocabolario utilizzato) non contempla i social network. Il problema quindi, Trump o non Trump, esiste: quell'immunità quasi totale è sta infatti già scalfita con la legge "Fosta-Sesta", ma solo nei casi di reati a sfondo sessuale. A firmare la legge, nel 2018, è stato Trump, ma su proposta bipartisan del Congresso.