Tengono le trimestrali delle principali aziende italiane ma lo tsunami sembra soltanto rimandato. Le big quotate sembrano aver tenuto botta nel primo trimestre rispetto alla crisi scatenata dal coronavirus, ma i timori si concentrano ora sul secondo, quando l'impatto del lockdown si renderà più evidente. Già da ora però la distinzione tra "vincenti" e "perdenti" appare emergere. Assieme, forse, a qualche immagine di futuro.
"La dicotomia grandi multinazionali versus piccole aziende", sottolinea Roberto Di Pietra, direttore del Dipartimento di Studi aziendali e giuridici dell'Università di Siena, "funziona poco bene per spiegare quello che succederà, chi soffrirà o chi soccomberà. Molte categorie di tradizionale classificazione delle aziende saltano. Qui il tema riguarda, quale che sia il settore, quante persone metti a lavorare in un dato spazio fisico, come organizzi il loro lavoro per minimizzare i contatti interni al processo produttivo o come ripensi l'idea stessa della vendita del bene prodotto o del servizio apprestato.
Ci sono servizi che per loro natura sono fuori dal problema, mentre non è lo stesso per la vendita di beni attraverso una catena logistica mondiale che richiede investimenti in sicurezza".
In difficoltà la manifattura più tradizionale
I modelli di business più tradizionali e 'fisici' pagano dunque il conto più salato. Fca, che ha visto il mercato dell'auto azzerarsi ed è stata costretta a fermare la produzione nei suoi stabilimenti, per fare un esempio, ha chiuso i primi tre mesi dell'anno con un rosso di 1,7 miliardi di euro. Leonardo ha visto i ricavi scendere del 5% e il risultato netto terminare in negativo per 59 milioni. Cnh Industrial ha segnato una perdita adjusted di 66 milioni. Nella moda Ferragamo ha visto i ricavi scendere del 30,6%, Moncler del 18%.
Banche in buona salute, ma rischio sofferenze
Buoni segnali sono arrivati dalle banche, nonostante la maxi perdita da 2,7 miliardi di euro segnata da Unicredit. Un colosso come Intesa SanPaolo ha però visto aumentare l'utile netto del 9,6% a 1,15 miliardi. Il problema riguarda quanto e come le aziende debitrici riusciranno a far fronte ai propri impegni in futuro.
"Le difficoltà delle imprese, soprattutto delle Pmi", sottolinea Di Pietra, "non potranno non riflettersi sull'equilibrio degli istituti. Molte banche erano ancora convalescenti dalla brutta botta degli Npl post 2008 e ora rischiano di dover affrontare livelli crescenti di crediti non performanti, crediti deteriorati, vere e proprie sofferenze".
Cancellati dividendi per oltre 6 miliardi
In poco più di una settimana gli azionisti di piazza Affari hanno assistito alla cancellazione di dividendi per oltre 6 miliardi di euro. Sul dato pesa in particolare il settore del credito, dopo che la Bce ha invitato i soggetti vigilati a rinviare almeno fino a ottobre il pagamento delle cedole per destinare tutte le risorse al sostegno della lotta contro l'impatto economico del coronavirus.
Il comparto ha visto il congelamento di circa 5,6 miliardi, a partire dai 3,4 miliardi di Intesa SanPaolo e gli 1,4 miliardi di Unicredit. Altri 500 milioni sono stati bloccati dalle assicurazioni, come Unipol che ha congelato circa 200 milioni, e dalle società industriali, come Pirelli che ne ha bloccati 183.
L'allarme liquidità
Secondo le stime della Banca d'Italia, tra marzo e luglio si cumulerebbe un fabbisogno di liquidità pari a circa 73 miliardi, ipotizzando che le imprese possano ricorrere alle sole attività liquide detenute in bilancio. Il fabbisogno scenderebbe a circa 59 miliardi tenendo conto della moratoria per le Pmi e a poco meno di 50 se le imprese utilizzassero completamente i margini disponibili sulle aperture di credito.
Rischio opacità
Tra i fattori di rischio non manca poi un possibile aumento dell'opacità dei Financial report di molte aziende. "In parte", spiega Di Pietra, "perché per molte aree di business è difficile immaginare il futuro, in parte perché con l'opacità necessariamente nascondi prospettive di mercato molto deteriorate.
Ci sono degli studi in letteratura che hanno esaminato l'opacità dei Financial report pre e post la Grande crisi finanziaria del 2008 e hanno messo in evidenza come le valutazioni delle voci al Fair Value si sono molto deteriorate.
Quello che accadrà alla ripartenza da questa catastrofe non lo sappiamo ma non è difficile pronosticare in prima battuta più opacità o se si preferisce meno disclosure".
Possibile ondata di fusioni e acquisizioni
In presenza di valori contabili (Patrimonio netto) che per molte imprese saranno critici e con valori economici in calo si aprono enormi spazi per rilevanti processi di fusione e acquisizione. "Molte imprese", dice ancora Di Pietra, "cesseranno, ma molte altre sopravviveranno anche se con cambi di proprietà azionaria o con l'ingresso di nuovi investitori, anche internazionali. Le operazioni di Foreign direct investment potrebbero crescere nei prossimi anni. Per alcuni settori i processi di concentrazione potrebbe essere utili per rafforzare la dimensione media delle imprese e questo vale anche per il comparto finanziario".
Un futuro più smart e 4.0
Quello che è certo è che questa crisi segna una cesura. Nulla sarà più come prima, molto più di quanto non avvenne dopo la crisi finanziaria del 2008. "Da quella esperienza", sostiene Di Pietra, "abbiamo tratto gli elementi che poi sono diventati Industria 4.0. Da questa dovremo trarre ulteriori elementi per riorganizzare i processi produttivi non solo nella logica di Industria 4.0 ma anche nella prospettiva che tali processi devono essere sostenibili e devono garantire la sicurezza sanitaria. A questo riguardo credo che non sfugga a nessuno il salto obbligato che milioni di lavoratori hanno compiuto nell'imparare modalità di lavoro agile (smart working). Questo inevitabilmente costituirà un cambiamento permanente tutto da decifrare e che ogni impresa declinerà nel definire la propria soluzione organizzativa e i propri processi produttivi".