In pochi anni sono diventati i giganti della Silicon Valley, i re della new economy. Uber, Airbnb, Lyft, nomi che abbiamo imparato in fretta, forse prima ancora che si comprendesse fino in fondo il loro modello di business.
Il coronavirus ha avuto un impatto enorme su queste società già un mese dopo l'esplosione della pandemia. Solo in questa settimana Uber ha annunciato il licenziamento di 3.700 persone, il 14% della propria forza lavoro; Airbnb ne ha mandate via 1.900, il 25%; Lyft, piattaforma meno nota in Europa ma che offre un servizio molto simile a Uber di cui è il principale concorrente negli Usa, ha cacciato invece 1.000 persone, il 17% del suo personale amministrativo.
Le società hanno deciso di tagliare le spese a discapito della forza lavoro. Licenziati impiegati e in molti casi quadri aziendali. Ma l'impatto è molto più alto se si pensa alla 'materia prima' su cui si basano gli affari di queste società: auto con conducenti a noleggio, case private per affitti brevi, corse in scooter.
Prima del coronavirus Uber, per esempio, aveva circa 1,4 milioni di autisti in giro per il mondo. Aibnb circa 150 milioni di proprietà in affitti brevi in 65 mila città. Ora è tutto bloccato. "è chiaro che su società come queste l'impatto si fa sentire di più. La caratteristica di tutte le startup è avere una grande 'fragilità intrinsecà", commenta ad AGI Paolo Cellini, investitore e docente di Economia digitale all'Università Luiss di Roma.
"Il loro business model si basa sulla necessità di bruciare molta cassa per occupare fette sempre più grandi di mercato e cercare di tornare profittevoli coi grandi numeri di clienti. Uber è ancora in perdita, nonostante la sua crescita esponenziale. Ma per continuare a fare ricavi e prometterne di nuovi c'è bisogno che tutto funzioni. Il Covid-19 invece ha fermato tutto".
L'effetto è stato devastante, dimostrando la fragilità di questi colossi. "Certo, c'è da fare una distinzione fondamentale", precisa Cellini: Nnon tutta la sharing economy (economia della condivisione, ndr) è in difficoltà, come non lo è tutta la gig economy (economia dei 'lavoretti', ndr). Il coronavirus ha colpito con forza interi settori industriali: viaggi, eventi, trasporti, indipendentemente dalle modalità di business, se più tradizionale o più innovativo. Ma l'effetto sulle 'ex startup' californiane è stato più doloroso proprio per via della loro natura".
Giganti sì, ma dai piedi di argilla. "Se per loro è dura, e lo sarà anche nel prossimo futuro, c'è tutto un settore che sta dando segni di buona vivacità", argomenta il docente della Luiss. "Penso all'ecommerce, quello delle piattaforme da cui si ordina il cibo a casa, si', ma anche quello delle realtà che fino a ieri non lo facevano. Penso ai bar, ai ristoratori, ai fruttivendoli che fino a ieri avevano un negozio oggi fanno consegne a domicilio, anche tramite Whatsapp. è un nuovo fenomeno, se vogliamo 'iper-local' di ecommerce".
Secondo i dati di Netcomm Forum, nei primi mesi del 2020 il commercio online ha visto un incremento solo in Italia di 2 milioni di nuovi consumatori, di cui 1,3 sono arrivati alle piattaforme d'acquisto digitale durante l'emergenza sanitaria. Ma se i consumatori si muovono online è anche perché online c'è più scelta, più opzioni, e nelle ultime settimane più negozi che prima non vendevano tramite internet. È come se il mondo stesse vivendo un enorme esperimento sociale, forzando l'individuazione di soluzioni: "Il lockdown ci ha fatto capire che il mondo da remoto può funzionare. Non benissimo, ma può funzionare. E questa può essere una conseguenza che ci porteremo dietro, normalmente il mondo impara e incorpora i cambiamenti, magari non sarà tutto come adesso, ma qualcosa resterà", rileva Cellini.
Difficile quindi parlare di crisi di un modello, o crisi dell'economia digitale in qualsiasi delle proprie forme: "Bisognerebbe sempre evitare di farsi prendere dalla smania di dire 'tutto sta crollandò", commenta ad AGI Antonio Aloisi, docente di diritto del lavoro e nuove tecnologie alla IE Law School di Madrid. "Non credo il modello della gig economy sia stato messo in discussione dal coronavirus, anche se di certo le aziende che lavorano in questi settori dovranno confrontarsi con le nuove abitudini dei consumatori. Se per alcune sarà crisi, per altre ci saranno opportunità. E già ci sono, perché qualcuno ne sta approfittando: alcune società di food delivery stanno aumentando la tariffa che chiedono agli esercenti, in certi casi fino al 35%. Ed è un fenomeno preoccupante perché oggi molti ristoratori di fatto dipendono dai loro servizi e rischiano di essere stritolati dalle loro tariffe".
C'è poi un altro fenomeno sottolineato da Aloisi: "Emerge in maniera drammatica che nemmeno in questo momento, davanti all'emergenza sanitaria, queste società sono state in grado di mettere in sicurezza i propri lavoratori", conclude.