Le imprese italiane sono pronte a ripartire. Migliaia di aziende 'scalpitano' dopo la pausa forzata causata dall'emergenza coronavirus, ma con uno scenario variegato se si attraversa la penisola da Nord a Sud. Le richieste più pressanti arrivano proprio dalle regioni più colpite, come Lombardia e Veneto, ma anche da Emilia Romagna e Marche. Al Sud emerge soprattutto il timore che situazioni di crisi, incancrenite negli anni, diano la mazzata finale a interi settori produttivi. In tutte le regioni, comunque, la situazione è disperata con migliaia di domande nei cassetti delle prefetture in attesa del via libera al riavvio delle attività.
Nella martoriata Lombardia si calcola che siano oltre 10 mila le aziende che premono per riaprire i battenti. Nel Milanese sono circa 3000 le imprese che hanno presentato una richiesta formale, mentre nel Bresciano almeno 4.300. A queste si aggiungono circa 2000 imprese nel Bergamasco. Richieste - da quanto si apprende - sono state avanzate anche senza l'accordo delle controparti sindacali ferme nel pretendere precise e rigorose garanzie sulla sicurezza dei posti di lavoro.
Il Veneto, regione 'campione' nei controlli con i tamponi fatti a tappeto, la Confindustria punta a una riapertura progressiva. Nel frattempo, però, nella sola provincia di Padova circa 3.300 aziende hanno presentato la richiesta in prefettura per la revoca del blocco. La conferma arriva anche dalla Cgil che, peraltro, chiede "molta cautela". È il modello veneto fatto di 'lavoro, lavoro, lavoro' che ha impellente necessità di ripartire, ma che trova un freno nel sindacato che non nasconde la preoccupazione per la salute degli operai e si dice "poco convinto" rispetto a questa fretta di riaprire "soprattutto se considerata la mancanza di uno sbocco per l'export e la difficoltà di trovare materie prime e componenti".
Anche il Piemonte, con circa il 60% delle aziende chiuse, si appresta alla ripresa. Circa la metà delle imprese bloccate sono associate a Confindustria, pari più o meno a 2500, per un totale di 140 mila dipendenti in cassa integrazione. Gli industriali premono per "riaprire il prima possibile" e assicurano la disponibilità ada accettare "norme di sicurezza più severe, con l'introduzione del doppio turno e l'utilizzo dello smart working". Nel frattempo sono in corso i controlli della prefettura, a Torino, sulle 1400 aziende che hanno presentato l'autocertificazione per poter ripartire.
In Emilia Romagna la 'parola d'ordine' è "ripartenza" per dare un segnale concreto e ossigeno ai tanti imprenditori bloccati dall’emergenza. In attesa delle decisioni del governo sulla ‘Fase 2’ aumenta il ‘pressing’ delle associazioni datoriali in una delle regioni, tra le locomotive d’Italia in termini di Pil, ma anche tra le più colpite dal Covid-19. In ‘subbuglio’ la packaging valley (650 aziende lungo la via Emilia) e anche tutto il comparto delle aziende produttrici di beni strumentali per l’industria. E poi il settore della ceramica, la lavorazione del legno, gli utensili per l’automotive. A raccogliere le preoccupazioni degli imprenditori del comparto è Federmacchine che lancia un appello al governo: "Fateci ripartire, in modo graduale, ma non tirate giù le saracinesche". Un appello alla ripartenza è stato lanciato anche da Ance Emilia che rappresenta i costruttori di Bologna, Ferrara e Modena, circa 300 aziende (dal piccolo artigiano con partita Iva a grandi imprese fino a 300 dipendenti)..
È l'Italia della manifattura di eccellenza, dell'artigianato di qualità, e anche della moda che è terrorizzata per il protrarsi dell'incertezza. La Confindustria Firenze fotografa al situazione della moda in Toscana: la totalità delle imprese della filiera della pelletteria e calzature sono chiuse. A fare eccezione, sono solo quelle rarissime aziende, che hanno potuto riconvertire la propria produzione in mascherine e camici e su cui tuttavia, gravano i medesimi problemi economici delle altre, non potendo mantenere i costi aziendali, con la sola produzione dei dispositivi di protezione individuali. Per questo, la sezione moda di Confindustria Firenze chiede una riapertura, anche progressiva delle imprese dopo il prossimo 14 aprile. Tornare a produrre - assicurano gli industriali - nel totale rispetto delle norme di tutela e sicurezza dei lavoratori.
Il grido di allarme che si propaga nella penisola arriva anche dalle Marche dove circa 2.800 richieste di riapertura giacciono sui tavoli delle prefetture. Aziende che non vogliono chiudere per tornare a produrre in deroga al Dpcm del 22 marzo scorso. Con il sistema del Tac (tessile, abbigliamento e calzaturiero) chiuso e blindato, così come l’arredamento e la nautica, con il farmaceutico e l’agroalimentare che non hanno smesso l’attività, gran parte delle richieste sono firmate da piccoli imprenditori metalmeccanici coinvolti nella linea di produzione della filiera giudicata 'essenziale' dal decreto. Da quanto si è appreso, il maggior numero di comunicazioni arriva dalla provincia di Ancona: sono circa 850; seguono Pesaro-Urbino con 700, Macerata con 500, Ascoli Piceno con 450 e Fermo con 300.
E se in Umbria ha riaperto i battenti la Acciai Speciali Terni, dopo due settimane con i forni spenti, come non era accaduto neanche durante la seconda guerra mondiale, troppi ancora gli stabilimenti chiusi o gravati da pesanti limiti come l'ex Ilva di Taranto, in Puglia, che ha ottenuto lo sblocco della commercializzazione ma con rigorosi limiti per la sicurezza. Nel Sud dove sui tavoli delle prefetture si accumulano, a migliaia, le richieste di cassa integrazione si tenta di salvare le attività ancora in grado di produrre. In Calabria sono oltre 500 le aziende in attesa del via libera tra cui realtà significative, come l'Alfa Gomma di Cosenza, in cui operano 200 dipendenti.
Centinaia le domande anche in Campania dove peraltro ha appena riaperto la Ema di Morra de' Sanctis, nell'Avellinese, con 500 dipendenti, che produce pezzi per i Boeing. Situazioni simili anche in Abruzzo con 540 comunicazioni arrivate alla Prefettura dell'Aquila da parte di società che hanno chiesto di riavviare il ciclo produttivo in deroga alle restrizioni imposte dal Governo. Anche in Sardegna che spera di uscire per prima dall'emergenza, secondo quanto pronosticato da eminenti virologi, sono centinaia le richieste di riapertura soprattutto nei settori manifatturiero ed edilizio mentre, sullo sfondo, si assiste al tracollo del turismo che vale circa il 14% del Pil regionale.
"E' urgente far ripartire le imprese, nel rispetto dei protocolli di sicurezza. Si può fare. Di più: si deve fare, soprattutto a Sud, dove le condizioni di fragilità sono più evidenti: se perdi quote di mercato, è grave per tutta l'Italia, ma diventa devastante soprattutto nel Sud". E' l'allarme lanciato da Sicindustria che riassume il dramma di una parte d'Italia che chiede "di pianificare e garantire la ripartenze". Soprattutto il Meridione rischia di pagare il prezzo più alto della pandemia. "Non c'è più tempo da perdere", avvertono gli industriali della Sicilia.