C'è un rapporto che dà ragione alla Russia: per mettere fuori gioco i produttori shale americani il prezzo del petrolio doveva scendere a questi livelli, 30 dollari al barile. A Vienna, la settimana scorsa il ministro dell'Energia russo, Alexander Novak, ha provato a spiegarlo agli ex partner dell'Opec senza grandi risultati. L'Arabia Saudita non ha preso bene il rifiuto di siglare l'accordo da parte di Mosca e ha deciso di aumentare la produzione. Il resto è storia nota con i prezzi del greggio crollati ieri in quello che si può definire il lunedì nero del petrolio.
Ebbene, secondo i dati raccolti dalla società di consulenza norvegese Rystad Energy i produttori di shale oil americani hanno già problemi di liquidità. Le cose peggiorano ogni giorno di più, di pari passo con le quotazioni del greggio. In un colpo solo, l'Arabia Saudita e la Russia e la loro battaglia per le quote di mercato hanno reso quasi tutte le società shale statunitensi non più redditizie. Solo cinque società in due aree del paese hanno un breakeven a prezzi inferiori rispetto all'attuale, rivela il rapporto.
I pozzi perforati da Exxon Mobil, Occidental Petroleum, Chevron e Crownquest Operating LLC nel bacino di Permian, che si estende attraverso il Texas occidentale e il New Mexico sud orientale, possono generare profitti a 31 dollari al barile, come mostrano i dati di Rystad. Anche i pozzi di Occidental nel DJ Basin del Colorado sono in attivo a quel prezzo, lo stesso della chiusura di lunedì. Ma non è così per il resto dell'industria dello scisto, più di 100 operatori in una dozzina di giacimenti. Per loro, trivellare nuovi pozzi significherà quasi certamente andare in rosso.
I progetti di scisto hanno la caratteristica di poter essere attivati o chiusi in maniera rapida. Ma poiché la produzione di questi pozzi diminuisce molto più velocemente rispetto a quella dei pozzi tradizionali, le aziende devono trivellarne di più solo per mantenere la produzione piatta. Ciò significa rendimenti degli investimenti modesti, uno dei motivi principali per cui l'oil&gas rappresenta meno del 4% dell'indice S&P 500.
A questo punto, "le aziende non dovrebbero bruciare capitale per mantenere la base produttiva a un livello insostenibile", ha detto Tom Loughrey, un ex manager di fondi hedge fund che ha fondato la sua azienda di shale-data, Friezo Loughrey Oil Well Partners LLC a Bloomberg. Ci sono già produttori come Diamondback Energy e Parsley Energy che hanno annunciato che stanno tagliando il loro budget per le perforazioni e i pozzi. Altri, come Apache Corp. e Occidental, hanno annunciato che ridurranno l'attività. Secondo molti analisti, un pozzo richiede un prezzo di 68 dollari perché gli investitori possano ottenere un rendimento adeguato entro 24 mesi.
Il boom della produzione shale ha fatto diventare gli Usa i maggiori produttori di petrolio al mondo oltre che esportatori di greggio. Ma se i prezzi restassero intorno ai 30 dollari sarebbero costretti a tagliare molte attività e la produzione potrebbe diminuire di 2 milioni di barili al giorno dalla fine di quest'anno al termine del 2021, un calo di circa il 20%. "Anche i migliori operatori dovranno ridurre la loro attività", ha spiegato Artem Abramov capo della ricerca shale di Rystad a Bloomberg, aggiungendo che "è quasi impossibile avere la totale neutralità di cassa quest'anno con i prezzi che calano così".
D'altra parte la 'guerra' del petrolio l'hanno provocato proprio loro, i produttori shale americani che, mentre Opec e Russia tagliavano la produzione, non solo la compensavano con i loro incrementi ma la superavano. Dal novembre 2016, ha evidenziato Goldman Sachs, la produzione dell'Opec e della Russia è stata ridotta di 4,4 milioni di barili al giorno mentre il resto del mondo l'ha aumentata di 5,7 milioni di barili. E una grossa fetta di questi barili è tutta delle commpagnie shale americane.