Chiuse le università, sospesi gli eventi pubblici, rinviate le partite di Serie A: l’emergenza Coronavirus nel nord Italia paralizza la società, ma non il lavoro, che laddove è possibile, prosegue da casa. Sono molte le aziende che stanno ricorrendo alla pratica dello smart working. Come viene spiegato direttamente dal sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, si tratta di “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall'assenza di vincoli orari o spaziali e un'organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”.
Sempre sul sito del Ministero si legge: “Ai lavoratori agili viene garantita la parità di trattamento - economico e normativo - rispetto ai loro colleghi che eseguono la prestazione con modalità ordinarie. È, quindi, prevista la loro tutela in caso di infortuni e malattie professionali”.
Quella del “lavoro agile” potrebbe essere la soluzione ad una situazione di emergenza per quanto ci riguarda, ma in realtà si tratta più di una strategia che noi in Italia, rimasti ancorati ad un modello di lavoro industriale, ci siamo rifiutati di accettare per troppo tempo. L’impiegato moderno ormai, nella maggior parte dei casi, non ha più a che fare con qualcosa di tangibile, le sue mani insomma si sporcano sempre meno; più che altro ciò che tratta sono dati e informazioni, niente insomma che non possa essere “maneggiato” in qualsiasi ambiente lui preferisca e con i tempi che più desidera. Lavorare a progetto, un concetto che sta portando enormi risultati laddove viene applicato.
Come scrive Il Corriere della Sera al riguardo in un articolo del 2014 (da allora e anche da prima sono partite le prime sperimentazioni): “Tempo, luogo e organizzazione sono rimasti vincoli legati alla produzione di beni materiali o di servizi che presuppongono la presenza (es. un negozio fisico a differenza di un negozio che opera via Internet)”, e ancora “Le aziende dovranno mettere a punto col tempo e sperimentare modelli di riferimento, che ancora non ci sono, ed è per questo che la massima parte delle imprese usa il tempo come riferimento, anche per mestieri non seriali e ripetitivi: se vieni in ufficio e stai otto ore, allora vuol dire che hai lavorato, se stai a casa non hai fatto niente. Chiaro, facile, ma non veritiero”.
La legge sullo smart working, tra l’altro, darebbe chiari benefici fiscali a quelle aziende disposte a prendersi quello che potrebbero, erroneamente, considerare un rischio, eppure, come AGI scriveva nel maggio del 2018, quindi quattro anni dopo l’articolo del Corriere della Sera, “Solo 114 aziende hanno chiesto (e ottenuto) gli sgravi contributivi pari al 5% della retribuzione prevista per i programmi di lavoro agile[…]. Il motivo sembra da ricercarsi in un approccio piuttosto cauto da parte delle aziende, ma anche dei lavoratori, che spesso vedono l'allontanamento dal posto di lavoro come anticamera del licenziamento oppure temono che il lavoro fuori dall'ufficio finisca per coinvolgere eccessivamente anche la propria vita privata”.
Secondo i dati dell'Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano, fino al 2017 i lavoratori agili in Italia erano circa 300mila; molti di più, a quanto pare, saranno quelli che dovranno abituarsi per venire incontro alla crisi sanitaria che sta colpendo il nostro paese.
E in piena emergenza, il dibattito torna nel vivo. "Aziende e pubbliche amministrazioni devono attrezzarsi per attenuare i disagi creati dalla paura del virus e dalle inviolabili misure di prevenzione, cercando di utilizzare gli strumenti offerti dalla legislazione del lavoro", commenta Mauro Nicastri, presidente dell'Associazione italian digital revolution (Aidr), ricordando che "il datore di lavoro è tenuto (d.lgs. n. 151/2015) a valutare i rischi esterni al rapporto di lavoro, adottando misure idonee a tenere indenne il lavoratore, con particolare riferimento a sistemazione logistica e idonee misure di sicurezza, oltre che una assicurazione per ogni viaggio di lavoro".
"Quali dovrebbero essere le misure che enti pubblici e aziende potrebbero assumere per affrontare il complesso periodo dell'epidemia?", si chiede quindi Nicastri. "Da un punto di vista tecnico, le condizioni richiedono una permanenza del lavoratore all'esterno dai locali aziendali per un periodo più o meno lungo di tempo. Diversamente, la legge n. 81/2017 ha definito il lavoro agile (smart working) come una modalità di svolgimento della prestazione di lavoro subordinato, da svolgersi in parte all'interno ed in parte all'esterno dei locali aziendali, secondo un principio di alternanza", chiarisce.
"La soluzione dello smart working appare solo in parte incompatibile con la vicenda del coronavirus, in particolar modo laddove applicata a rapporti che in precedenza non ne conoscevano l'attuazione. Assume, quindi, particolare rilievo la disciplina, ancora in vigore, del telelavoro - prosegue -, quale 'forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell'informazione nell'ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l'attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell'impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa".
"Entrambe le soluzioni, oltre a manifestarsi pure di più immediato impiego, garantirebbero molteplici benefici per pubbliche amministrazioni, aziende e lavorati in termini di salute e ottemperanza al proprio lavoro, non avendo così ricadute negative sull'economia del Paese", conclude Nicastri.