Al netto delle peculiarità relative al contesto politico e legale, l'infinita crisi dell'acciaieria di Taranto, la più grande del vecchio continente, è solo un tassello della più vasta crisi dell'industria siderurgica europea, che soccombe ormai da tempo all'aggressiva concorrenza di produttori come Cina, Russia e Turchia e, nel 2019, sta attraversando uno dei periodi più difficili degli ultimi anni.
Il mercato dell'acciaio è per sua natura volatile. Da una parte, essendo un comparto tra i più energivori, soffre in maniera marcata le oscillazioni dei prezzi degli idrocarburi, dall'altra il suo andamento è legato in maniera strettissima ad alcuni settori specifici del manifatturiero, in particolare l'industria automobilistica. La crisi delle quattro ruote in Germania e l'aumento del prezzo dei minerali ferrosi e, più in generale, il rallentamento della crescita globale sono però sufficienti a spiegare solo in parte il calo del 2,9% della produzione europea registrato nei primi 9 mesi del 2019. Sulla congiuntura attuale pesano infatti fattori politici che renderanno molto complicato risalire la china anche nel caso di un miglioramento del contesto economico, dalla Brexit alla guerra dei dazi, dalle nuove norme in materia ambientale alla scarsa risolutezza di Bruxelles nel tutelare i produttori comunitari dai concorrenti.
La situazione della siderurgia in Gran Bretagna, crollata al ventiduesimo posto nella classifica dei produttori mondiali - che vede la Germania al settimo posto e l'Italia al decimo - è forse la più difficile di tutte. La crisi della British Steel, finita in amministrazione controllata, è legata alle incertezze della Brexit, che hanno portato molti clienti a sospendere gli ordini in attesa di chiarimenti sul regime tariffario che sarà in vigore dopo il divorzio tra Londra e Bruxelles. Costi dell'energia più elevati che in Europa continentale hanno fatto il resto. Il governo è stato costretto a intervenire con un piano di aiuti da 300 milioni di sterline.
Il dumping cinese e il problema delle quote
Il problema ormai strutturale dell'intero settore è invece la difficoltà nel competere con l'acciaio a basso prezzo proveniente dalla Cina, che smaltisce sotto costo sui mercati esteri la produzione in eccesso. Il 'dumping' di Pechino è quindi tra i fattori che nel 2018 hanno portato le importazioni di acciaio in Europa a crescere del 12% a fronte di un mercato che cresceva di appena il 3,3%. Un deterioramento che ha assunto risvolti paradossali quando lo scorso maggio, riporta ancora Bloomberg, il prezzo dell'acciaio europeo è sceso al di sotto di quello cinese. Negli ultimi due anni, inoltre, le esportazioni di Russia e Turchia verso l'Europa sono raddoppiate.
Queste dinamiche non sono state certo ostacolate dalla Commissione Europea, che nel 2015 ha aumentato del 5% le quote di importazioni libere da dazi. Le tariffe del 25% imposte da Trump sull'export siderurgico europeo, che hanno di fatto tagliato fuori gli operatori del vecchio continente sul mercato americano, avrebbero dovuto consigliare prudenza all'esecutivo comunitario. E invece, nonostante il grido di dolore dell'associazione di categoria Eurofer, il 1 luglio, come previsto, la quota di importazioni non soggette a dazi è cresciuta di un altro 5%. Il risultato si è visto a settembre, quando le importazioni di acciaio in Europa sono salite ai massimi da dieci anni.
A guadagnarci sono state soprattutto la Turchia, che ha aggiornato a luglio il record delle esportazioni verso l'Europa, e la Cina, le cui consegne nel blocco hanno toccato il picco di quattro anni mentre la produzione complessiva di Pechino raggiungeva i massimi storici, con un aumento del 2,2% nei primi nove mesi del 2019. Lo stesso anno che ha visto ArcelorMittal - il gigante angloindiano che ha abbandonato l'ex Ilva - perdere il 18% del suo valore in borsa e tagliare la produzione in tutta Europa.
Il nodo dell'agenda climatica
Sotto le forti pressioni delle industrie nazionali, la Commissione Europea ha infine acconsentito, il 1 ottobre, a ridurre dal 5% al 3% la quota aggiuntiva di importazioni libere da tariffe. E un limite del 30% per Paese esportatore è stato imposto per le importazioni di bobine laminate a caldo, tra i prodotti di punta della siderurgia turca. Ma potrebbe essere troppo poco e troppo tardi.
Il vero elefante nella stanza è infine costituito dagli obiettivi climatici al 2050, anno entro il quale l'economia europea si prefigge di diventare "climate neutral" e l'industria è chiamata a ridurre in maniera drastica il ricorso ai combustibili fossili. Ma, nonostante la Germania abbia già avviato esperimenti con l'elettrolisi dell'idrogeno, non esistono al momento fonti di energia rinnovabili in grado di sostenere l'industria pesante. Se l'obiettivo è abbattere le emissioni, ci sarebbe il nucleare ma sia Berlino che Roma lo hanno abbandonato.
In un orizzonte temporale meno remoto, preoccupa invece il 2021, quando il piano europeo di lotta ai gas serra entrerà nella sua 'fase 4' e il sistema di scambio di quote di emissioni diventerà più oneroso.