Il Ceta, l’accordo che regola gli scambi tra Italia e Canada è in vigore in forma provvisoria dal 21 settembre 2017, ma ancora in attesa di ratifica da parte degli stati membri. Il ministro dell'Agricoltura, Teresa Bellanova, recentemente ha detto che “dobbiamo lavorare affinché il Ceta sia ratificato” scatenando un acceso dibattito politico.
Ma quali sono i reali effetti dell’accordo sul nostro settore agroalimentare?“ Di Ceta in Italia se ne è parlato fin troppo senza però mai basare i giudizi pro o contro su numeri e fatti oggettivi", spiega Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, "oggi a due anni dall'entrata in vigore i numeri ci sono ed il giudizio di 'bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno' non può che essere confermato”.
Di quanto è aumentato l'export agroalimentare?
Nei primi 5 mesi del 2019 abbiamo esportato verso il Canada 308,4 milioni di alimentare con un incremento di appena l'1,6% rispetto all'anno precedente. Se consideriamo che l'incremento medio delle esportazioni agroalimentari italiane verso tutti i Paesi è stato dell'8,7%, la nostra valutazione non può che essere freddina. E non potrebbe essere diversamente: le esportazioni alimentari italiane verso il Canada sono aumentate 5 volte meno che verso il resto del mondo. Insomma non può certo dirsi un successo.
Come è cambiato il quadro burocratico?
Come spesso avviene il diavolo si nasconde nei dettagli. Inutile ad esempio aumentare la quota di esportazione di formaggi europei verso il Canada, se poi si dà ai produttori locali la scelta di quali formaggi importare (e la scelta ricade su quelli che fanno meno concorrenza ai produttori canadesi) e si creano procedure burocratiche per il rilascio di licenze che sembrano fatte apposta per non consentire il pieno utilizzo della quota di esportazione consentita.
Non ci sono proprio progressi da registrare?
Alcuni passi avanti sono stati fatti. Ad esempio finalmente abbiamo superato l'assurda situazione che il nostro vero prosciutto di Parma non potesse essere esportato con il suo nome perché ad essere garantito era un prodotto imitato, il Parma ham, registrato da una ditta locale 30 anni fa. Oggi, invece, il nostro prosciutto può usare il suo vero nome, ma a che prezzo?
Quindi il contrasto ai prodotti "tarocchi", il cosiddetto 'italian sounding', sta funzionando?
“Non corriamo. Nel 2018 malgrado tutte le tutele a favore dei marchi DOP e IGP italiani, risulta aumentata la produzione locale di Parmesan. Questa è la dimostrazione che l’effetto-scia di questi prodotti locali non è troncato dalle tutele CETA"
Vige una sorta di “doppia circolazione”: accanto al Made in Italy può circolare il prodotto tarocco, a meno che non richiamino esplicitamente l’italianità. E i falsi hanno una marcia in più perché possono contare su una base di mercato consolidata nel tempo e ormai non estirpabile perché contemplati dalle nuove norme vigenti. È prevista, infatti, nell'accordo una“clausola di coesistenza”: in relazione alle IG europee Asiago, Feta, Fontina, Gorgonzola e Munster, il Canada non sarà tenuto a impedire il loro uso se questi nomi sono accompagnati dai termini “genere”, “tipo”, “modo”, “imitazione” o “simili”, in combinazione con una indicazione visibile della vera origine. Quindi, laddove i marchi siano stati richiesti o registrati in buona fede, prima della data di sottoscrizione Ceta, tali marchi sono validi e i proprietari avranno diritto a usarli anche se essi sono identici a una IG inserita nell’allegato dell’accordo.
Cosa dovrebbe fare quindi l'Italia?
Non bisogna come parlamento italiano (e di altri stati membri) ratificare l'accordo in quanto in tal modo perderemmo qualsiasi potere negoziale nella sua rinegoziazione. Minacciare la non ratifica fino alla fine, salvo ottenere una rinegoziazione delle garanzie che si stanno dimostrando inadeguate. E il Canada non si è dimostrato completamente chiuso verso questa ipotesi.
Questi accordi di associazione sono un errore di per sé o vanno valutati caso per caso?
Gli accordi di associazione non sono buoni o cattivi per definizione ma dipende da come vengono negoziati e con che ottica. Prendiamo quello con il Giappone. In termini di esportazione è un accordo positivo: nei primi 5 mesi del 2019 l'Italia ha esportato 322 milioni di food and beverage con un aumento di ben il 14% quindi poco meno del doppio delle nostre esportazioni agroalimentari medie verso il resto del mondo. Non siamo riusciti a stroncare anche qui il fenomeno dell'Italian sounding, proveniente soprattutto dall'Australia, ma qualche passo avanti è stato fatto pur rimanendo ancora molto da fare. Il Giappone inoltre non fa dumping con le sue esportazioni agroalimentari verso la UE perchè non esporta volumi significativi e perché ha standard molto elevati simili ai nostri.
Il tema del dumping sociale e ambientale e la sicurezza è centrale e riguarda invece accordi come il Mercosur o quello con il Vietnam. Serve trasparenza, non possiamo sopportare scippi di democrazia come quello che la nuova commissione sta facendo con il Mercosur. Provare a classificare un accordo importante come il Mercosur in accordo semplice per sottrarlo al giudizio ed alla ratifica dei Parlamenti dei singoli Paesi non fa bene all'Europa. Vogliamo che il Governo italiano con pragmatismo e senza alcuna ideologia consideri tutto ciò nelle posizioni che andrà ad assumere