Le responsabilità dell'attacco a due petroliere nel Golfo dell'Oman non sono chiare e potrebbero non esserlo mai davvero, come nel caso di analoghi episodi avvenuti in passato (l'ultimo appena il mese scorso, quando Riad denunciò il sabotaggio di altre due petroliere). L'unica cosa certa è che se la sicurezza di questo braccio di mare tornasse a deteriorarsi, il prezzo del petrolio, che subito dopo l'attacco ha reagito con un rialzo fino al 4,45%, potrebbe facilmente tornare a 100 dollari al barile, avverte Ubs.
Il canale, che separa le acque del Golfo Persico dal Golfo dell'Oman e quindi dal mare aperto, è infatti la principale arteria petrolifera mondiale. E una sua chiusura è la rappresaglia che Teheran evoca ogni volta che i suoi avversari minacciano un'iniziativa militare o un inasprimento delle sanzioni. Con Washington che punta il dito su Teheran per l'attacco di giovedì (proponendo una versione dei fatti che il proprietario nipponico della Kokuka, una delle navi colpite, ritiene infondata), il materializzarsi di un simile scenario non è da scartare.
Il punto più stretto è largo 33 chilometri ma le "autostrade del mare" effettive dove devono passare le petroliere sono larghe tre chilometri. Le imbarcazioni più grandi sono quindi costrette spesso a passare per le acque territoriali iraniane, il che rende il canale facilmente controllabile.
Di recente, riferendosi alle sanzioni imposte dagli Usa contro l'Iran e alla decisione di Trump di uscire dall'accordo sul nucleare, il generale Mohammad Bagheri aveva avvertito che lo stretto avrebbe potuto essere chiuso completamente, nel caso di una prosecuzione delle ostilità. "Se il nostro petrolio non verrà consegnato attraverso lo Stretto di Hormuz, nemmeno quelle delle altre nazioni passerà", disse l'alto ufficiale all'agenzia Isna.
Nello stretto confluiscono traffici provenienti dai maggiori Stati produttori della regione. Oltre all'Iran, l'arcinemica Arabia Saudita, gli Emirati, il Kuwait, l'Iraq, il Bahrein, il Qatar. Ogni giorno il canale è attraversato da una media di 14 petroliere con a bordo 17,4 milioni di barili di petrolio. Una cifra che è pari a oltre un quinto delle forniture petrolifere mondiali e a oltre un terzo di quelle trasportate via mare. E con la crescita del mercato del Gas Naturale Liquefatto, di cui il Qatar è il maggior esportatore mondiale, l'area non ha fatto che diventare ancora più nevralgica.
Va inoltre sottolineato che l'80% del petrolio che esce dallo stretto è diretto verso i mercati asiatici. Ciò fa comprendere bene perché Cina e Giappone siano disposti a tutto per evitare un'escalation che avrebbe un effetto pesantissimo sulle loro economie.
Per l'Energy Information Administration, divisione di informazione e analisi del dipartimento dell'Energia americano, lo stretto è il peggiore "collo di bottiglia" mondiale. Più delicato dello Stretto di Malacca, dove passano 16 milioni di barili al giorno, o del Canale di Suez, 5 milioni di barili. E per gli assicuratori mondiali, scrive Bloomberg, lo snodo non è più stato così instabile dal 2005, ovvero dai tempi della guerra in Iraq.
E neanche il caos seguito all'invasione americana del Paese arabo fu il momento più difficile. Negli anni '80, durante la guerra tra Iran e Iraq, furono 451 le imbarcazioni che, secondo dati del Naval Institute statunitense, furono vittima di un attacco, con responsabilità equamente condivise tra i due Stati belligeranti. Una situazione che portò gli Usa a intervenire con la loro Marina, che iniziò a scortare le petroliere attraverso il Golfo Persico. Ripetere un'operazione simile sarebbe estremamente costoso, e costringerebbe la Casa Bianca a chiedere il sostegno degli alleati.