Nell’anno fiscale 2018 Amazon ha registrato quasi 11 miliardi di dollari di profitti, circa il doppio dell’anno precedente, il miglior risultato di sempre per la società fondata e diretta da Jeff Bezos; e nonostante ciò non pagherà nulla di tasse; anzi, vanta un piccolo ma significativo credito fiscale. Come questo sia potuto accadere sta facendo molto discutere negli Stati Uniti. In un comunicato, Amazon ha replicato spiegando di pagare tutte le tasse dovute” nei paesi in cui opera, e ricordando che le tasse si pagano sui profitti non sugli incassi e i profitti di Amazon sarebbero ancora “modesti” a causa della competizione nel settore commerciale, dei piccoli margini del settore e dei pesanti investimenti.
Una replica che non ha convinto tutti e che anzi apre pesanti interrogativi sulle falle del sistema fiscale americano e sulla riforma voluta dal presidente Trump e approvata dal Congresso nel 2017. Bernie Sanders, che si è appena nuovamente candidato per la Casa Bianca per i Democratici, su Twitter ha scritto: “E’ ora di cancellare tutti i regali che Trump ha fatto alle grandi corporation e al ricco 1 per cento della popolazione, e ricostruire la classe media”. Mentre in una intervista fatta con la CNN il 18 febbraio, il fondatore di Microsoft Bill Gates ha detto che la riforma è fatta in modo che i ricchi se ne avvantaggino, e i poveri ne abbiano un danno: “Io già pago più tasse di tutti negli Stati Uniti, 10 miliardi di dollari, ma il governo dovrebbe imporre e me e a quelli nella mia posizione di pagare molto di più”. Insomma, se ne parla parecchio.
La notizia del “paradosso fiscale” di Amazon è stata pubblicata il 13 febbraio sul blog JustTaxes, dell’Istituto sulle tasse e la politica economica. Nel post dell’analista finanziario Matthew Gardner, frutto della lettura dei documenti ufficiali della società depositati alla Consob americana (la SEC), si evidenziano alcune cose sorprendenti. La prima è il grande risultato ottenuto nel 2018 da Amazon, che mai prima aveva registrato profitti a doppia cifra (10,8 miliardi di dollari): erano stati 5,6 miliardi di dollari nel 2017 (e anche allora, zero dollari di tasse); 4,5 nel 2016 e 2,0 nel 2015. Negli anni precedenti Amazon aveva sempre chiuso sotto il miliardo di dollari di profitti perché nonostante il fatturato in forte aumento, aveva scelto di reinvestire quasi tutto. Una scelta che si sposa con il mantra del fondatore per cui ogni anno per Amazon va vissuto come se fosse il primo anno di vita di una startup La seconda sorpresa viene da una analisi decennale: nonostante gli investimenti, tra il 2009 e il 2018 Amazon ha comunque registrato 27 miliardi di profitti sui quali ha pagato un miliardo di tasse. Una aliquota reale del 3 per cento.
Tutto ciò accade rispettando le norme fiscali americane. E nonostante gli obiettivi preposti della riforma voluta da Trump e che il Congresso ha approvato con il “Tax Cuts and Jobs Act” del 2017 che ha ridotto l’aliquota per le società dal 35 al 21 per cento proprio per incentivare le grandi corporation a versare al fisco il dovuto. Che nel caso di Amazon, per il 2018, sarebbe dovuto essere due miliardi e 268 milioni di dollari mentre invece ha chiuso l’anno fiscale con un credito di imposta di 129 milioni di dollari. Insomma è finita che devono avere dei soldi indietro.
La cosa non riguarda solo Amazon, va detto. Qualche giorno fa sono stati resi noti i conti di Netflix: la società di Reed Hastings, che in qualche caso produce e sempre distribuisce online film e serie tv (e che è in corsa per gli Oscar con il film Roma), ha chiuso il 2018 con 845 milioni di dollari di profitti per i quali non pagherà tasse. Sarà interessante vedere fra qualche giorno cosa accadrà agli altri colossi della Silicon Valley, per capire se e come hanno approfittato delle falle nel sistema fiscale americano. Intanto però vale la pena di spiegare meglio “il metodo Amazon”. Sempre Bernie Sanders, nel tweet citato, ha calcolato che i profitti sommati di Amazon, Netflix, General Motors e Goodyear, ammontano a 24,5 miliardi di dollari e che le tasse incassate dagli Stati Uniti su questa somma sono zero dollari.
Secondo molti analisti, dire che Amazon non paghi tasse è fuorviante. In particolare Tyler Cowen, blogger di Marginal Revolution, “la principale ragione per cui Amazon non paga imposte societarie è perché reinveste i suoi profitti”; in realtà “Amazon paga moltissimo se consideriamo le imposte sugli stipendi dei dipendenti, e quelle locali”. Stephanie Denning su Forbes ha rivelato che il complesso delle altre imposte che Amazon ha pagato nel 2018 è di un miliardo e 180 milioni di dollari.
Resta il fatto che la società di Bezos riesce a non pagare tasse sui quasi 11 miliardi di dollari di profitti. E questo è possibile per tre ragioni. La prima è l’ammontare degli investimenti in ricerca e sviluppo, che sono deducibili dal calcolo del reddito per le imposte: non ci sono ancora dati del 2018, ma nel 2017 Amazon ha investito 22,2 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo, più di qualunque altra società americana (Alphabet, la holding di Google, si è fermata a 16,6 miliardi di dollari).
La seconda ragione ha a che fare con gli investimenti in terreni, fabbriche e macchinari (quello che in Italia chiamiamo Industria 4.0 per cui esistono forti incentivi; negli Usa dopo la “riforma Trump” queste spese sono deducibili al 100 per cento). Da cinque anni questa voce per Amazon è in forte crescita e nel 2018 si è attestata attorno ai 60 miliardi di dollari.
La terza ragione riguarda le stock option, ovvero la pratica (molto diffusa in Silicon Valley) per la quale molti dipendenti, invece di essere gratificati monetariamente ricevono dei pacchetti di azioni della società. Questa politica di incentivi ha un effetto fiscale importante, perché le stock option sono deducibili e l’ammontare della deducibilità è legato al valore delle azioni. Vuol dire che meglio vanno le azioni di una società, e più grande sarà il vantaggio fiscale per la medesima. Nel caso di Amazon, il 2018 in Borsa è stato un anno eccezionale (da 1229 dollari per azione a 1575): e l’aumento del valore delle azioni ha consentito di abbattere il reddito imponibile di un altro miliardo e cento milioni di dollari.
In sintesi, Amazon non paga imposte federali perché investe in ricerca in sviluppo, investe in fabbriche e macchinari e retribuisce i dipendenti anche con le azioni della società. Tre buone pratiche che hanno però un effetto surreale. Se lo facessero tutte le grandi aziende, come farebbe uno Stato ad occuparsi di scuole, strade, ospedali, in generale dei servizi al cittadino?
Come ha commentato l’agenzia finanziaria Bloomberg, “il più grande vincitore dell’Era di Trump” è il suo acerrimo rivale Jeff Bezos. Nonostante il presidente lo abbia attaccato e ridicolizzato a più riprese (anche per rispondere alle inchieste giornalistiche del Washington Post, che Bezos ha comprato nel 2013); chiamandolo “Jeff Bozo” e minacciandolo di far partire una procedura antitrust, da quando Trump è arrivato alla Casa Bianca, Bezos è diventato l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio valutato 135 miliardi di dollari.
Ma il caso fiscale non sembra destinato a finire qui. Come dimostra la grande polemica che c’è stata nei giorni scorsi per gli incentivi fiscali (tre miliardi di dollari) che la città di New York aveva deciso di garantire ad Amazon in cambio dell’apertura di una seconda sede, dopo quella di Seattle. Infatti la campagna sollevata dalla giovane deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez ha indotto Amazon ha ritirare la candidatura. E la Ocasio-Cortez è stata una delle prime persone a condividere il lavoro di data journalism postato su Instagram dalla giornalista Mona Chalabi: in un grafico si vedono i profitti di Amazon in dieci anni; nell’altro le tasse pagate. “E’ ridicolo pensare come il governo avrebbe potuto usare quei soldi per migliorare le scuole e gli ospedali”, ha scritto Mona Chalabi nel suo post.