Eludere le tariffe Usa in tempi di guerra commerciale? La Cina ha già escogitato un modo per schivare la tagliola dei dazi imposti dagli Stati Uniti che colpiscono il cuore dell’innovazione e del manifatturiero avanzato: cambiare e falsificare i 18.927 codici Id, cioè le etichette che identificano le merci importate.
Lo rivela il Wall Street Journal, che ha parlato con importatori, funzionari doganali, avvocati commerciali e mediatori marittimi, arrivando alla conclusione che questa pratica è sempre più popolare tra alcuni esportatori cinesi.
Funziona così
Ogni prodotto Made in China importato negli Stati Uniti viene identificato con una designazione digitale a 10 cifre denominata codice HTS (il codice a barre). Ci sono in tutto 18.927 etichette digitali. Il codice fornisce un linguaggio comune che consente di collegare tra loro i mercati più disparati e di identificare la grande varietà di prodotti importati. In un mondo di tariffe in aumento, il codice ha però anche un'altra funzione: eludere quei prelievi tariffari.
Il Wall Street Journal spiega che l'attività di code-fudging, cioè di falsificazione dei codici Id digitali, si sta espandendo di pari passo con gli aumenti tariffari, a partire dai produttori di acciaio e di alluminio, minando così gli sforzi degli Stati Uniti di proteggere gli affari americani dalla concorrenza straniera.
Pechino nega
L’elusione dei dazi costa alle dogane americane perdite che ammontano a circa 550 milioni di dollari all’anno. Il governo cinese ribadisce il ferreo controllo alle dogane e proibisce il rilascio di false dichiarazioni allo spedizioniere doganale, respingendo le accuse americane e rispendendole al mittente, colpevole di unilateralismo agli occhi di Pechino.
Mentre il Fondo Monetario Internazionale taglia le stime del Pil mondiale e evidenzia i rischi derivanti dal protezionismo commerciale, con il pil cinese che rischia di essere più basso dell’1,6% rispetto al 2019 a fronte di nuovi balzelli Us), si inaspriscono le tensioni commerciali tra le due maggiori economie del mondo.
A Pechino è andato in scena uno scambio molto poco diplomatico tra il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, e il suo omologo cinese, Wang Yi, a Pechino.
In visita nella capitale cinese per informare la controparte dei colloqui avuti con il leader nord-coreano, Kim Jong-un, a Pyongyang, Pompeo ha avuto un incontro con Wang che si è svolto in un'atmosfera tesa, salvata a stento dal protocollo diplomatico, nel quale la questione nordcoreana è stata presto accantonata.
La guerra va avanti
Il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha rivolto affermazioni pesanti al suo interlocutore, rimproverandolo per le ultime misure prese da Washington, non solo sui dazi, ma anche sulla vendita di armi all'isola rivale di Taiwan. "Queste misure minano la fiducia reciproca e gettano un'ombra sul futuro delle relazioni sino-americane, il che è totalmente contro gli interessi di entrambi i popoli". Gli Usa hanno rivolto "accuse infondate" contro le linee di politica interna ed estera della Cina, ha aggiunto Wang, e ha chiesto agli Stati Uniti di "correggere immediatamente" il comportamento per "evitare di scendere in un conflitto" tra i due Paesi. "Chiediamo che gli Stati Uniti fermino queste azioni fuorvianti", ha detto, esortando i due Paesi a collaborare per evitare di "cadere in conflitto e scontri". Secca la replica di Pompeo: "Abbiamo un totale disaccordo”.
Tra i motivi di disaccordo, oltre all'escalation sul commercio, che riguarda oggi centinaia di miliardi di dollari di merci scambiate tra Cina e Stati Uniti e soggette a tariffe in entrambi i sensi (dazi su oltre 200 miliardi di dollari di import cinese, oltre ai 50 già in vigore, e tassi su 60 miliardi di import Usa), ci sono anche questioni legate alla sfera militare, a Taiwan (con l'approvazione Usa alla vendita di armamenti all'isola per 330 milioni di dollari) e al Mare Cinese Meridionale, dove il 30 settembre scorso si è rischiato l'incidente tra due cacciatorpedinieri delle marine di Cina e Stati Uniti.
La mossa di Pence
L'ultimo capitolo di frizione tra le due sponde del Pacifico riguarda le accuse del 'numero due' della Casa Bianca alla Cina di interferenze politiche: durante un discorso all'Hudson Institute di Washington, il vice presidente Usa, Mike Pence, ha detto esplicitamente, la settimana scorsa, che Pechino "vuole un altro presidente americano", diverso da Trump, che ha sfidato la Cina sul commercio, ed è tornato ad accusare la Cina sulla questione del Mare Cinese Meridionale, per l'incidente sfiorato tra i due cacciatorpedinieri.
Mentre lo yuan torna a sfondare la soglia psicologica di quota 6,9 sul dollaro, e secondo gli analisti, nonostante le rassicurazioni del premier Li Keqiang, è destinato a scendere ancora, i funzionari Usa hanno avvertito Pechino che Donald Trump non si impegnerà in nuovi negoziati commerciali con Xi Jinping al vertice del G20 di novembre, a meno che Pechino non produca un elenco dettagliato di concessioni. Lo rivelano fonti vicine al negoziato sui dazi tra i due Paesi che hanno parlato con il Financial Times. Il governo cinese, che ammette di avere già stilato la lista, non intende tuttavia presentarla senza avere la garanzia che tale mossa produca un clima politico stabile a Washington. In particolare, riferiscono le fonti, i cinesi chiedono il nome di una persona con un mandato per negoziare a nome dell'amministrazione Trump.