"Metteremo una tassa del 25% su ogni auto che arriva negli Stati Uniti dall'Unione europea", ha tuonato Donald Trump davanti ai suoi sostenitori in West Virginia. Una minaccia che non sembra destinata a concretizzarsi a breve. Il segretario al Commercio, Wilbur Ross, ha deciso di rinviare, senza fornire nuove scadenze, la pubblicazione del rapporto sul settore che dovrebbe fungere da base per il varo delle restrizioni.
Del resto, i negoziati commerciali con Ue, Messico e Canada sono ancora in corso ed è nello stile di Trump spararla grossa per aizzare l'elettorato e poi rivelarsi più conciliante al tavolo delle trattative. Trattative che, nel caso dell'Europa, sono tutte concentrate sul comparto auto, come secondo la Cnbc, avrebbe detto il presidente degli Stati Uniti al presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker durante il loro incontro a Washington.
Per il momento, nondimeno, i mercati accusano il colpo e sulle Borse europee tutti i titoli delle quattro ruote chiudono con il segno meno. E, pur essendo un'azienda italo-americana, Fca non è certo in controtendenza: -1,21% sia a Piazza Affari che a Wall Street, laddove Bmw, Renault e Daimler se la cavano rispettivamente con un -0,77%, un -0,78% e un -1,02% (ma fanno peggio Volkswagen, che lascia sul terreno l'1,35%, e Peugeot, giù del 2,14%). Perché?
Istintivamente verrebbe da pensare che, dal momento che Trump intende difendere i costruttori nazionali, Fiat Chrysler Automobiles - l'azienda nata dalla fusione di Fiat con Chrysler, la minore delle "tre sorelle" di Detroit - dovrebbe subire in maniera meno dura l'impatto di eventuali dazi, dato che parte della sua produzione è in Usa. È invece vero il contrario: dal momento che Bruxelles risponderebbe con la stessa moneta a una stretta degli Usa sulle importazioni di auto, la creatura di Sergio Marchionne finirebbe per pagare due volte le conseguenze di una guerra commerciale. E i problemi non finirebbero certo qui.
Se Trump vuole colpire i tedeschi, sbaglia strategia
Se l'Italia è il settimo esportatore di automobili in Usa, è anche - secondo i dati Anfia - il primo acquirente di veicoli americani, con una quota pari al 18% del totale. Se i dazi renderebbero la vita durissima ai modelli Alfa Romeo e Maserati, prodotti in larga parte in Europa, altrettanto accadrebbe alle Jeep, fiore all'occhiello della gamma Chrysler, che, colpite da contro-dazi europei, diverrebbero più costose per i clienti del vecchio continente.
Sulla carta, Trump vuole convincere i costruttori europei a produrre in Usa le auto che vendono in Usa. Almeno nel campo dei modelli di lusso, le tariffe finirebbero però per erodere le quote di mercato di Fca a favore delle aziende tedesche, che sono in teoria il bersaglio principale di The Donald. Peccato che, a differenza di Alfa e Maserati, Mercedes e Bmw abbiano già una forte base industriale in America, con stabilimenti che impiegano migliaia di persone. E lo stesso vale per Volkswagen, che produce in loco numerose Audi, Porsche e Bentley, pur importandone parte dalla Germania per soddisfare l'elevata domanda.
Guai per Fca anche dai dazi contro Messico e Canada
Non solo. Se in Usa viene costruita quasi tutta la componentistica, buona parte della produzione americana di Fca è localizzata in Messico e Canada, altri due Paesi sulle cui esportazioni di auto Trump intende imporre dazi. Riuscirà tale minaccia a convincere Fca a spostare gli stabilimenti in Usa? Sicuramente ci vorrebbe del tempo, dato che si parla di cinque fabbriche in Messico (tra cui quella di Toluca che produce le Fiat 500) e tre in Canada, dove a fare la parte del leone è invece il marchio Dodge.
Anche i due altri grandi costruttori americani, General Motors e Ford, producono in Messico una parte sostanziale dei veicoli che vendono in Usa (rispettivamente 30% e 20%) e pure in questo caso appare impensabile che una produzione così ingente venga rimpatriata in breve tempo. E anche qua, come sottolineò Moody's, i produttori americani rischierebbero di pagare un prezzo in proporzione più elevato dei rivali teutonici, per i quali le esportazioni in Usa di modelli made in Germany non costituiscono una percentuale importante del totale.
Ciò senza contare gli effetti devastanti su una 'supply chain' complicatissima, dove la produzione dei componenti ha una localizzazione molto variegata. Basti solo pensare che anche le importazioni di acciaio e alluminio nel mirino di Trump finiscono per alimentare l'industria automobilistica Usa che, di fronte a una stretta protezionistica, vedrebbe aumentare i costi di produzione, bruciando almeno parte del vantaggio competitivo che l'inquilino della Casa Bianca auspica di ricavare dai dazi.