Eppur si muove. Dopo un anno che il fondatore di ScaleIt Lorenzo Franchini definisce “horribilis”, il venture capital in Italia invia segnali positivi nei primi sei mesi del 2018. Soprattutto in quella fascia di round che di solito latita: operazione oltre il milione di dollari (meglio se oltre i 10) per sostenere la crescita delle scaleup (cioè le ex startup che hanno superato la fanciullezza per diventare adolescenti). ScaleIt, che si occupa di promuovere l'incontro tra investitori internazionali e imprese, ha registrato 11 operazioni che coinvolgono società italiane o fondate da italiani e con sede all'estero: la raccolta complessiva è stata di 176 milioni di euro (202 milioni di dollari). “Speriamo non sia una fiammata”, afferma Franchini. Che indica la Spagna (e non la Francia) come modello. E guarda “il bicchiere mezzo pieno” sia nel corporate venture capital che sulle scelte della famiglia Agnelli.
ScaleIt si avvia alla sua terza edizioni: com'è cambiato il mercato italiano in questi anni?
"L'andamento negli ultimi anni è stato ondivago. Nel 2016 c'è stata una crescita del mercato significativa e un'apertura degli investitori internazionali. E si pensava si stesse andando verso una crescita continuativa. Ma il 2017 è stato un annus horribilis, con un blocco degli investimenti sulla parte growth e pochissimi investimento oltre il milione di euro. Se il mercato complessivo è calato del 40%, in questa fascia c'è stato un crollo del 70%. È stato un anno molto duro".
Lo hanno confermato anche i dati dell'evento...
"Sulle 11 scaleup selezionate da ScaleIT il primo anno, nel 2016, in otto hanno raccolto round per un totale di 45 milioni. Tra quelle presenti nella seconda edizione, nessuna ha raccolto il round presentato agli investitori".
Che segnali arrivano dal primo semestre 2018?
"Sembra ci sia un cambio di marcia. C'è stato un movimento molto positivo sia sul mercato interno (Artmest ha chiuso un round da 4 milioni di euro, Supermercato24 da 13) sia da parte dei fondi esteri in scaleup italiane o fondate da italiani e con sede all'estero. In tutto abbiamo registrato 11 operazioni, per una raccolta totale di 202 milioni di dollari, 176 milioni di euro. La speranza è che non siano fuochi temporanei ma segnali di crescita e di capacità di investimento importanti. Sappiamo che internamente abbiamo una capacità d'investimento limitata. La differenza la farebbe, come in Spagna, l'afflusso di capitali esteri. Fino a 5-6 anni fa Madrid era al nostro livello. Nel 2017, su 900 milioni investiti, 600 sono arrivati da oltreconfine".
Quindi, più che il modello francese, l'Italia dovrebbe guardare a quello spagnolo?
"Credo che il modello spagnolo sia quello più vicino. Rispetto a noi hanno il vantaggio di essere una porta d'accesso all'America Latina, ma anche noi abbiamo le nostre carte da giocare. Le nostre realtà universitarie stanno crescendo. Le nostre istituzioni, a oggi, si sono dimostrate incapaci di spingere gli investimenti istituzionali. Ecco perché credo che sia più fattibile il modello spagnolo rispetto a quello francese. Serve un modello più aperto..."
Cosa intende per “aperto”?
"Se si vogliono ottenere round importanti, spesso è necessario spostare la holding all'estero. Ma è comunque possibile far affluire risorse, con investimenti che si indirizzano prevalentemente in Italia. Guardiamo ad esempio MotorK. Il quartiere generale è a Londra, ma con pochissimi dipendenti. La sede milanese impiega invece circa 320 persone. E la ricaduta economica, quindi, è prevalentemente italiana".
A proposito di università e granidi aziende, si parla spesso della carenza di trasferimento tecnologico e investimenti corporate.
"Sta crescendo la consapevolezza, anche grazie ai fondi ITAtech, concentrati proprio sul trasferimento tecnologico e sulla necessità di mettere in contatto managerialità e parte tecnica. Ho la percezione che ci sia un processo di maturazione".
E sulle grandi imprese che ancora non si fanno sentire nel mercato del venture capial?
"Hanno difficoltà a interagire col mondo startup, ma stanno cercando di imparare. Guarderei però il bicchiere mezzo pieno: fino a poco fa, le grandi imprese non facevano nulla o utilizzavano iniziative di open innovation solo per fare comunicazione. Oggi è un tema che è salito a livello del board, di cui si occupano gli amministratori delegati. Le aziende stanno facendo cose o cercando di capire cosa fare. Da lì a farlo in modo efficace ne passa, ma ci sono dei progressi".
A proposito di corporate. Mentre in Italia si invocano le grandi imprese, la famiglia Agnelli, con Exor, ha deciso di investire in startup ma lo farà in dollari e negli Stati Uniti
"Anche qui guarderei al bicchiere mezzo pieno: una delle famiglie più potenti d'Italia ha finalmente iniziato a investire in venture capital. Sta adesso agli operatori italiani convincerla che anche qui ci sono buone opportunità. Presentando il fondo, John Elkann ha dimostrato una grande capacità di trovare interlocutori di altissima qualità. Potremmo sfruttare questa capacità, per promuovere progetti più ampi".
Per il venture capital l'Italia è un mercato secondario. I segnali di attrattività dipendono dalla bontà della proposta o dal fatto che il mercato offre prezzi (come i costi di sviluppo) inferiori?
"È vero: in Italia riusciamo a essere molto competitivi sul rapporto qualità prezzo per sviluppo e operation. Da questo punto di vista, l'investitore internazionale può valutare in modo positivo un'azienda con holding all'estero e centri di sviluppo in Italia. Detto questo, l'investitore punta prima di tutto sulla qualità dell'iniziativa e dell'imprenditore piuttosto che sui costi del mercato. Il punto più importante è un altro: la minore competitività lato investimenti. Un fondo estero che decida di puntare su una startup italiana ha meno concorrenza e più tempo per pensarci".
ScaleIt sta selezionando le società per la prossima edizione. Ci sono già settori che sembrano emergere?
"Il processo sarà ancora lungo ed è quindi prematuro parlare delle prossime scaleup selezionate. In generale, noto due cose: stanno maturando le startup che si occupano di intelligenza artificiale; e ci sono scaleup interessanti sulla parte media. Freeda è l'esempio più chiaro, ma non l'unico".
L'ultima domanda è quella che ormai si fa da anni: arrivano prima le buone startup (che attirano risorse) o i capitali (che sostengono le startup)?
"Non ho subbi: arrivano prima i capitali. È sempre stato così, in tutti i mercati che si sono sviluppati. Ed è ancora più vero oggi che non ci sono barriere geografiche. Fino al 2010, si poteva parlare di mercati che coincidevano con i confini degli Stati. Oggi siamo in un mondo fatto di vasi comunicanti. Più scarse sono le risorse interne e meno si attirano e si trattengono talenti e buona impresa. I capitali all'inizio magari non saranno gestiti in modo efficiente e avranno rendimenti contenuti. Ecco perché serve un supporto pubblico. Ma poi il mercato cresce e i processi diventano più efficaci".