Quotazione doveva essere e quotazione sarà. Spotify è pronta ad approdare in borsa. E lo farà, con tutta probabilità, già nel primo trimestre 2018. Le tempistiche sono quelle attese. Manca ancora la conferma ufficiale, ma questa volta, dopo mesi di voci e indiscrezioni, c'è una traccia consistente: secondo diverse fonti citate da Axios, Spotify avrebbe già inviato alla SEC (l'organismo di controllo di Wall Street) i documenti necessari per l'Ipo. Che poi un'Ipo non è. E qui arriva una seconda conferma alle ipotesi fatte nel 2017: la piattaforma di musica in streaming ha scelto la strada della quotazione diretta (direct public offering, Dpo).
Spotify sceglie la “diretta”
Nell'Ipo, la definizione del prezzo e la vendita delle azioni passa da un intermediario. Nella quotazione diretta no: quindi niente tour di presentazione agli investitori, una procedura più snella, con la partecipazione ma senza la regia di uno i più istituti finanziari, e con costi e tempi più contenuti. Ma anche con una rete di protezione meno solida: Spotify si misura direttamente con il mercato, sperando nella forza di un marchio già conosciuto. Cioè in grado di “vendersi” da sé.
Non è solo un dettaglio tecnico: la trafila tradizionale imposta dalle Ipo non sembra andare a genio alle società tecnologiche. Che guarderanno quindi con molto interesse a Spotify e alla sua scelta alternativa. Per quanto non sia certo la prima società a scegliere un'offerta diretta, è raro che a farlo sia una compagnia delle sue dimensioni: un round privato del 2015 aveva valutato la piattaforma 8,4 miliardi di dollari. Da allora non ci sono cifre certe, ma sono di sicuro più elevate. Le stime più attendibili parlano di 16 miliardi di dollari. Che in borsa potrebbero diventare circa 20.
La causa di Wixen Music
Occhio ai tempi. Anche se una presentazione dei documenti alla SEC di dicembre potrebbe indicare una quotazione imminente, non è da sottovalutare quello che è successo dopo l'invio dei file. Neanche il tempo di far atterrare il tappo dello spumante di Capodanno e sulla scrivania di Spotify è arrivata una citazione in giudizio da parte di Wixen Music Publishing. L'accusa: violazione del copyright. La richiesta: un risarcimento danni di 1,6 miliardi di dollari (150 mila dollari per canzone, il massimo secondo la legge sul copyright degli Stati Uniti).
Spotify è accusata di aver utilizzato migliaia di canzoni senza licenza e compenso per l'editore. Non è ancora chiaro se questa bega possa condizionare il percorso verso Wall Street. Bisognerà accertare le responsabilità. E poi ci sarebbe anche la strada degli accordi, che consentirebbero di cavarsela con cifre inferiori alle richieste (ma siamo ancora nel campo delle ipotesi). Ad ogni modo, la richiesta da 1,6 miliardi di dollari non è di poco conto per una società che, secondo gli ultimi dati (non ufficiali, pubblicati da The Information) nella prima metà del 2017 ne avrebbe incassati 2,2. Che si attende chiudere l'anno in crescita del 40% ma con un rosso compreso trai i 100 e i 200 milioni.
Le altre papabili
Al netto di imprevisti, Spotify sembra quindi destinata a lasciare il gruppo di società tecnologiche non quotate con valutazioni miliardarie. Chi sarà la prossima? Per Uber non sono certo tempi tranquilli e l'orizzonte del ceo Dara Khosrowshahi va perlomeno al 2019. Lyft e AirBnB procedono con grande attenzione e (salvo sorprese) il 2018 non sarà l'anno buono. Anche Pinterest potrebbe rimandare l'appuntamento al prossimo anno. Ben più alte sono invece le probabilità di vedere in borsa il produttore cinese di smartphone Xiaomi.
È una startup atipica. Perché, pur essendo stata fondata solo nel 2010, macina fatturato (dovrebbe aver chiuso il 2017 in linea con l'obiettivo fissato di 15 miliardi di dollari) e utili (potrebbe aver già superato il miliardo). Numeri che dovrebbero far lievitare l'Ipo fino a 100 miliardi di dollari. Una somma che, secondo fonti citate da Reuters, la compagnie ritiene “ragionevole”.