In un mercato che sta compiendo la revisione del proprio modello di sviluppo, da un sistema trainato dalle esportazioni e un prototipo orientato ai consumi interni e alla qualità della crescita, la continua ricerca di alto valore aggiunto spiega l’interesse cinese su Jeep. Il settore dei Suv registra i tassi di crescita tra i più alti in Cina. Come si legge nell’ultimo rapporto CeSIF della Fondazione Italia-Cina, “nel 2016 la Cina ha raggiunto la quota di 28 milioni di veicoli prodotti e venduti”. Di questi, oltre 9 milioni sono Suv. Un trend che cresce nel tempo: “Mentre alcuni settori come la produzione di crossover registrano un calo, i Suv rappresentano il segmento dove da anni puntano i cinesi”, dice all’AGI Alberto Rossi, responsabile Marketing Operativo e Analista CeSIF della Fondazione Italia Cina, co-autore insieme a Filippo Fasulo di “Cina 2017”.
Del resto l’automotive è un settore cruciale in Cina: soprattutto per quanto riguarda la produzione di auto elettriche, esso “rientra tra i primi dieci settori definiti strategici nell’ambito del piano Made in China 2025”. Il programma di innovazione del settore manifatturiero punta a “trasformare la Cina da gigante manifatturiero a potenza mondiale della produzione manifatturiera", come ha spiegato il premier Li Keqiang nel maggio del 2015. In altre parole: la Cina vuole diventare leader delle tecnologie del futuro. Con la crescita del Pil a 6,9% nel secondo trimestre 2017, un risultato in linea il target di crescita del 6,5%, dopo il 6,7% del 2016 che ha segnato il dato più basso degli ultimi 25 anni, i leader cinesi continuano a guidare la trasformazione dell’economia.
Il fattore qualità
Persiste il boom dei consumi cinesi, soprattutto digitali, il cui contributo sulla crescita del Pil – come si legge nel rapporto “Cina 2017. Scenari e prospettive per le imprese” – è salito rapidamente dal 44,9% del 2010 al 64,6% di fine 2016. Eppure, nel mercato automotive più grande al mondo, sostenuto anche dall’aumento della classe media in città di seconda fascia e in province di minor rilievo, la qualità ha ancora molta strada da fare per raggiungere il livello dei maggiori player mondiali: “La rotta degli investimenti cinesi è chiara: innovazione manifatturiera, e quindi ricerca alto valore aggiunto, logistica e infrastrutture”, sottolinea Rossi. “Ma non farei una netta distinzione tra queste categorie – aggiunge l’analista -: si tratta di investimenti che rientrano tutti perfettamente nel quadro OBOR (l’iniziativa Belt and Road di collegamento infrastrutturale via terra e via mare tra Asia ed Europa promosso da Pechino, ndr): il progetto di una nuova globalizzazione cinese”.
L’acquisto di Fca rientrerebbe in questo disegno, anche se per il momento si tratta di una possibilità incerta. “Nel mercato cinese, la Fiat si posiziona al 66esimo posto in termini di market share”, ha detto Michele Geraci, docente di economia alla Nottingham University Business School China e direttore del Global Policy Institute China. “Volkswagen vende circa 3 milioni di veicoli, Fiat arriva a qualche migliaio. Una eventuale acquisizione cinese di Fca o parti di essa, non avrebbe l’obiettivo di assorbire tanto la tecnologia quanto piuttosto il know how gestionale: la Cina vuole imparare il management”.
I fatti degli ultimi giorni
Mentre avanza l'ipotesi di uno scorporo di Maserati e Alfa Romeo per ridurre l’indebitamento, unita a quella della componentistica auto, in primis Magneti Marelli, con il titolo di Fca che vola a Milano, impennandosi del 5%, e Milano Finanza anticipa che sarebbero in corso colloqui con Volkswagen su una partnership nei veicoli leggeri, si fanno sempre più insistenti le voci di un interesse cinese sul gruppo Fiat. Le prime indiscrezioni riguardo l’interesse di quattro gruppi cinesi (Great Wall Motors, Geely, Dongfeng, Geely e Guangzhou Automobile) al potenziale acquisto di Fca – o di singoli marchi - erano state diffuse il 15 agosto scorso dal sito americano Automotive News, facendo schizzare i titoli del gruppo in Borsa. Secondo le indiscrezioni, immediatamente smentite da Fca, il gruppo guidato da Marchionne avrebbe rifiutato una prima offerta avanzata da Great Wall Motors.
I gruppi cinesi hanno dapprima negato, poi nei giorni scorsi Great Wall Motors, specialista nei Suv e molto più piccola di Fca, ha manifestato il proprio interesse per tutta o parte del gruppo, in particolare Jeep, mandando in fibrillazione i mercati e alle stelle il titolo di Fca, salvo alla fine ammettere di non aver avviato ancora alcun contatto con il Lingotto. Ma i vertici cinesi hanno confermato a Caixin e a Repubblica l’interesse a valutare l’investimento. Il New York Times ha inoltre rivelato che Fca da mesi sarebbe in trattativa in Cina con alcune aziende per un potenziale investimento e per accordi che includono due marchi americani del gruppo: Jeep, che da oltre 70 anni produce fuoristrada e che offre una gamma completa di Suv, e Ram, la divisione che produce pick up e veicoli commerciali. Secondo il Wall Street Journal, Great Wall si ispira alla concorrente Geely, che nel 2010 ha rilevato Volvo da Ford: un caso di successo. Secondo l’analista cinese Cui Dongshu, interpellato da The Paper, con l’acquisto di Fca Great Wall avrebbe uno “strumento per accedere al mercato mondiale”. Pur essendo in grado di finanziarie l’operazione, trattandosi di un gruppo solido, “Jeep ha un costo elevato e non sarebbe affatto facile per Great Wall procedere al suo acquisto”.
La nuova rotta degli investimenti cinesi
Una logica ferrea guida gli investimenti cinesi: acquisire le competenze necessarie per affermare la leadership delle tecnologie del futuro. Competenze di duplice natura: “Da un lato capacità domestiche, dall’altro acquisizione di know how da industrie straniere”, spiega Michele Geraci. “Laddove non arriva, la Cina deve fare M&A”.
Sono due le principali direttrici lungo cui Pechino intende indirizzare gli investimenti. Le infrastrutture, quindi i porti. La Via della Seta. “La Cina è alla ricerca di un terminale alternativo al Pireo e potrebbe individuarlo nel sistema portuale italiano” che il governo italiano sta promuovendo, a partire da Trieste e Genova. Ma attenzione. “Bisogna affrettarsi”, avverte Geraci. “Con il rapido scioglimento dei ghiacci, la Cina potrebbe presto prendere la rotta dell’Artico”. E il Mediterraneo perdere la sua centralità.
E’ soprattutto la nuova stretta di Pechino sulle acquisizioni all’estero a definire le nuove rotte per gli investimenti cinesi.
La stretta di Pechino
Non si placa, ma si inasprisce il giro di vite sugli investimenti in settori considerati a rischio: sport, industria alberghiera, cinema, immobiliare, intrattenimento, cioè quei comparti che rischiano di prestarsi a operazioni speculative o spesso usati per mascherare fughe di capitali all’estero. La settimana scorsa una nota del Consiglio di Stato ha stabilito che gli investimenti all'estero dovranno essere conformi “al principio di sviluppo pacifico e di cooperazione win-win. La stretta, iniziata a fine novembre dello scorso anno, ha fatto sentire presto i suoi effetti: gli investimenti nel settore non finanziario sono calati del 46% nel primo semestre di quest'anno, a quota 45,8 miliardi di dollari. Sono poi seguite due mesi fa restrizioni ai prestiti per acquisizioni all'estero, con la caccia alle azioni predatorie di grandi conglomerati d’affari, anche detti “rinoceronti bianchi” e “coccodrilli finanziari”.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l'annuncio dell'acquisto del Southampton da parte dell'uomo d'affari cinese Gao Jisheng per 220 milioni di euro. Ora è stata definita una direttiva ancora più severa contro gli investimenti e le acquisizioni "irrazionali", duramente condannati in una nota separata della Commissione nazionale per le Riforme e lo Sviluppo (NDRC) che al contempo promuove le operazioni che non fanno male alla Cina, quelle ad esempio in linea con l’iniziativa OBOR. “Certe acquisizioni sono rose con le spine”: riecheggiano le durissime parole pronunciate a febbraio scorso da Pan Gongsheng, il capo dell’Administration of Foreign Exchange (Safe), l’autorità che controlla il mercato valutario in Cina. Le autorità cinesi hanno classificato gli investimenti in tre categorie: “vietati”, “ristretti” e “sostenuti”. Alle aziende cinesi è “proibito” comprare tecnologia militare: non potranno più investire in paesi in guerra o in paesi che non abbiano relazioni diplomatiche con Pechino.
Vietati – naturalmente - tutti gli investimenti che possano minacciare gli interessi e la sicurezza della Cina, così come quelli nel gioco d'azzardo e nella pornografia. Il governo ha dichiarato “ristretti” gli investimenti che riguardano il real estate, gli hotel, il cinema, l’industria dell’intrattenimento, lo sport, tecnologie obsolete in generale le operazioni che si pongono in contrasto con gli standard ambientali. Le autorità cinesi incoraggiano invece tutti quegli investimenti riconducibili all’iniziativa Belt and Road, quali le infrastrutture. Non solo. Incoraggiato l’acquisto di know how tecnologico, e gradite le operazioni che rafforzano la capacità cinese in ricerca e sviluppo, nell’estrazione del petrolio e nelle attività minerarie. Secondo gli analisti cinesi la vera e propria frenesia di acquisizioni all'estero e il colossale indebitamento che ne è derivato, rappresentano ormai una minaccia per il sistema finanziario della Cina.
Gli investimenti cinesi in Italia*
Tra il 2000 e il 2016, l'Italia si è posizionata al terzo posto tra le destinazioni degli investitori cinesi in Europa, a quota 12,8 miliardi di euro, dietro la Gran Bretagna (a 23,6 miliardi) e la Germania (18,8 miliardi). Secondo Davide Cucino, presidente emerito della Camera di Commercio Europea in Cina (EUCCC), il Bel Paese nei confronti degli investimenti cinesi “continuerà a posizionarsi come nell’ultimo anno e mezzo. L’Italia – ha detto il presidente della Camera di Commercio Europea in Cina - è ricca di aziende medie con prodotti di qualità che fanno gola ai cinesi”. L'ultima notizia è di questo agosto: la multinazionale italiana di costruzioni Permasteelisa, azienda leader della progettazione, gestione progetti, produzione e installazione di facciate continue e impianti per interni, già passata in mano ai giapponesi della Lixul, è stata ceduta da questi ultimi a un gruppo cinese, Grandland, per 467 milioni di euro.
“Permasteelisa non è un’azienda piccola ma vi sono molte altre aziende di piccole dimensioni nel settore dell’automazione e della tecnologia, che per i cinesi rappresentano importanti opportunità”, spiega Cucino. Si tratta di operazioni piccole che “non percepiamo nei numeri” ma che sono particolarmente significative agli occhi degli investitori cinesi - che bramano diventare padroni di tecnologia.
Cina alla ricerca in Italia dell’alto valore aggiunto
Il filo rosso degli investimenti cinesi in Italia è la ricerca dell’alto valore aggiunto. “Se guardiamo alla storia degli investimenti cinesi in Italia, non c’è un settore predominante”, sottolinea Alberto Rossi: “Tra manifatturiero, servizi e commercio, la distribuzione è equa”. Attenzione: gli investimenti cinesi in Italia non cresceranno all’infinito, “ma le piccole e medie aziende italiane con un alto valore aggiunto in settori strategici nelle mire di investitori cinesi, sono ancora molte. Si pensi al gruppo cinese Lovol Arbos Group (del gruppo Foton Lovol) che negli ultimi due-tre anni ha comprato ben tre società emiliane nel settore dei macchinari agricoli. Oggi il gruppo, partito praticamente da zero, ha raggiunto un fatturato non lontano dai 100 milioni di euro”, ha spiegato Rossi.
L’azione anti-predatoria di Bruxelles
Nel frattempo, Bruxelles prepara per l’autunno un regolamento sugli investimenti di Paese extra-Ue nei settori “strategici” in risposta alla lettera con cui a fine luglio Italia, Francia e Germania hanno chiesto di intervenire sulla proposta di una norma anti-predatoria . “Riteniamo – ha detto lo stesso ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, al Meeting di Rimini – che non sugli investimenti cinesi nello specifico ma sugli investimenti da parte di Paese extra-europei, quando questi investimenti sono diretti ad aziende che hanno un alto contenuto tecnologico, dobbiamo essere sicuri e in grado di verificare che non siano operazioni di natura predatoria”.
Per Davide Cucino, che il 19 settembre a Pechino e il 25 a Bruxelles (con una delegazione che include ben sette rappresentanti italiani) parteciperà alla presentazione del nuovo Position Paper della EUCCC, si tratta di una necessaria misura atta a “verificare che gli investimenti che arrivano dall’estero abbiano come obiettivo la riqualificazione delle aziende acquisite e non un mero scopo di acquisizione tecnologica”. Tenendo conto, certo, degli interessi degli investitori, spesso “aziende private o quotate in Borsa” contro il cui interesse il mercato libero nulla può. Il focus del Position Paper riguarda i due documenti emessi dal Consiglio di Stato che puntano a un aumento degli investimenti stranieri in Cina attraverso una maggiore liberalizzazione, favorendo quelle industrie che sono oggetto del piano Made in China 2025. Sul rema della reciprocità, spesso lamentata dalle aziende europee in Cina che in molti settori continuano a essere soggette a vincoli e restrizioni nell’accesso al mercato, “c’è la speranza di un miglioramento nei rapporti tra Cina e Europa, che ha oggi l’opportunità di occupare posizioni all’interno di un dialogo con Pechino fino a poco tempo prerogativa degli Usa”, ha concluso Cucino.
Nei giorni scorsi, il general manager e capo della comunicazione della EUCCC Carl Hayward, ha confermato alla Reuters che nel mese scorso si è svolto un incontro a Pechino tra i vertici di diverse multinazionali straniere per discutere la presenza sempre più pressante del Partito Comunista Cinese nella gestione delle società europee in Cina. Come scrive Milano Finanza, Pechino avrebbe manifestato l’intenzione di rivedere gli accordi di joint venture con i partner locali per rafforzare il potere decisionale dei comitati di Partito interni alle società
* Gli investimenti cinesi in Italia
Secondo l’ultimo rapporto “Cina 2017” del CeSIF, il centro studi della Fondazione Italia Cina, al 2016 sono 168 gli investitori cinesi in Italia, in crescita del 7%, e 74 le società di Hong Kong, per un totale di 242 gruppi. Ecco l'elenco delle operazioni più importanti: due anni fa arriva l'acquisizione più rilevante, il passaggio a ChemChina del 65% di Pirelli per almeno 7 miliardi di euro. L’anno scorso Suning mette le mani sull'Inter (peraltro già indonesiana) e la Rossoneri Sport Investment del misterioso uomo d’affari Li Yonghong si prende il Milan di Silvio Berlusconi. In pratica, tutta la Milano calcistica, cioè un pezzo di storia dello sport più popolare in Italia, passa sotto il controllo di Pechino. In precedenza la People’s Bank of China aveva acquisito circa il 2% di numerose blue chip italiane: Generali, Telecom, Eni, Enel, Fca, Prysmian, Mediobanca, Unicredit. La banca centrale cinese controlla anche quote di Mps e Intesa, ma nel frattempo dovrebbero essersi piuttosto diluite. Nel 2015 State Grid Corporation of China si prende il 35% di Cdp Rieti, che controlla Snam e Terna. Nel 2014 era toccato al 40% di Ansaldo Energia passare sotto il controllo di Shanghai Electric. Sempre nello stesso anno la Shenzen Marisfrolg Fashion, azienda leader del pret-a-porter cinese si compra i marchi della moda Krizia, Roberta di Camerino e Miss Sixty. Nel 2012 era stato il produttore di yacht Ferretti ad essere acquistato dal gruppo Shig Weichai, che ne ha preso il 75%.