Nonostante i miliardi di euro di titoli di Stato italiani acquistati dalla Bce negli ultimi due anni, è tornata la febbre dello spread. Il differenziale tra il rendimento dei buoni del Tesoro e i Bund tedeschi, considerati i più sicuri del mondo, in questi giorni è tornato a toccare di nuovo quota 200 punti. Non accadeva dal febbraio 2014. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha parlato di un “rialzo sgarbato” che “ci ricorda che un Paese con alto debito non possa non occuparsi della sua discesa”.
Un rialzo che brucia 20 miliardi
Nonostante tutta la demagogia che vi si fa intorno, lo spread è tutt’altro che un numero astratto sul quale i media si concentrano per chissà quali incomprensibili ragioni. Un allargamento del differenziale significa una cosa molto semplice: lo Stato dovrà pagare interessi più elevati sul proprio debito perché gli investitori lo considerano meno affidabile. E se questo Stato è già fortemente indebitato ed è sottoposto a rigidi vincoli di bilancio, come nel caso dell’Italia, il governo dovrà o tagliare la spesa pubblica o aumentare le tasse, entrambe misure che deprimono la crescita. Unimpresa a provato a far i conti: con lo spread stabile a 200 punti, si brucerebbe tra il 2016 e il 2017 un “tesoretto” che potrebbe toccare i 20 miliardi di euro. Sono soldi veri, che l’esecutivo potrebbe utilizzare altrimenti.
I mercati temono le elezioni anticipate
A rendere i mercati più diffidenti nei confronti del nostro Paese è la confusione del quadro politico, con la maggior parte delle forze in campo che premono per le elezioni anticipate. Chi in concreto finanzia il nostro debito, preferisce la stabilità e preferirebbe che la legislatura giunga alla sua scadenza naturale nel 2018. Tanti sono i dossier delicatissimi in mano al governo Gentiloni: l’accordo con la Libia sui migranti, il salvataggio di Mps, la presidenza del G7. E, per quanta ulteriore demagogia si faccia sulla “paura dei mercati”, è sempre chi presta il denaro a dettare le condizioni al quale intende farlo. E l’anello debole siamo tornati noi: la Spagna cresce a un ritmo molto più veloce di noi e, di conseguenza, il rapporto tra debito e Pil migliora in maniera più rapida. Non aiuta l’impennata dei consensi per i partiti euroscettici in tutta Europa, che mettono a repentaglio l’idea stessa di Unione Europea.
Come sempre, il pallino è in mano a Draghi
Il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha promesso che continuerà il programma di ‘quantitative easing’, ovvero l’acquisto di titoli di Stato dei Paesi dell’Eurozona, “finché sarà necessario”. Se la febbre dello spread salisse, Draghi potrebbe essere costretto a ricaricare il bazooka e tornare ad aumentare l’importo delle operazioni. Questa volta, però, sarà più difficile convincere Berlino, dove l’inflazione è già tornata al 2% a causa della politica monetaria ultra accomodante di Francoforte. E i ‘falchi’ come il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, e il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, hanno già intensificato il pressing su Draghi perché tiri il freno, fibrillazioni che contribuiscono ad aumentare il clima di incertezza. In Italia, intanto, il tasso di inflazione arranca ancora sotto l’1%, un andamento che, a sua volta, aumenta il valore del debito. Un’Europa a due velocità, di fatto, già esiste.