Per essere uno che ha appena trovato 46 milioni di euro, non è che sprizzi gioia da tutti i pori. Paolo Galvani mi riceve nel suo ufficio milanese, a due passi dalla Stazione Centrale, e si capisce che non è tipo da storytelling delle startup: niente giro turistico all’openspace coloratissimo, forse; con le piante che scendono dal soffitto, magari; e il biliardino accanto all’angolo caffé, quello ci scommetto c’era.
C’era ma non me lo fa vedere e piuttosto quando arrivo ci infiliamo subito nella sala riunioni, tavolo quadrato da otto posti in legno scuro, nessun lusso particolare, nessuna scritta motivazionale alle pareti tipo “innovate or die” o “think bigger” o “disrupt the world” che tanto piacciono a chi fa startup.
Eppure Moneyfarm non è solo una startup, per ora è la startup italiana dell’anno; anzi, secondo alcuni calcoli, di sempre, nel senso che nessuna aveva chiuso un round di investimento così importante: 46 milioni di euro, appunto. Soldi che non sono stati trovati per un colpo di fortuna, sotto un albero e dentro un materasso; sono stati scovati, inseguiti per mesi, col batticuore, infinite riunioni in giacca e cravatta e sorriso d’ordinanza mostrando conti economici ancora traballanti ma promettenti, business plan sfavillanti, piani strategici seducenti per convincere chi ha i soldi e per mestiere è pronto a rischiare qualcosa, i venture capital, a metterli nella sua società.
Ecco, per essere uno che ha appena trovato 46 milioni di euro Paolo Galvani non ha l’aria di chi è arrivato, piuttosto di chi sta correndo come un matto. Un po’ come nella metafora del leone e della gazzella: nel dubbio, corri. Mi spiego, se il mestiere di startupper potessimo raccontarlo come un videogioco, Moneyfarm con il round che ha chiuso il 29 maggio, non ha vinto la partita della vita, è soltanto cresciuta di livello, ma adesso gioca un campionato molto più difficile: era finita da tempo l’era dei premietti facili, delle strette di mano, delle pacche sulle spalle, dei complimenti gratuiti e un po’ inutili.
Dai premi all'azienda: la sfida di Moneyfarm alla finanza
Da un po’ era diventata una azienda vera, dipendenti (una ottantina), fatturato (in crescita costante), problemi vari su tutti l’affannosa ricerca degli utili e soprattutto di un modello sostenibile per cui incassi più di quello che spendi. Ma adesso con 46 milioni di euro nel motore, iniettati da partner di notevole rango che hanno scelto di condividere il rischio perché insomma Moneyfarm funziona e può crescere davvero lo vede anche un bambino, adesso si gioca tutto: può diventare una azienda che cambia il suo mercato di riferimento e affermarsi stabilmente. Oppure no.
Questo dilemma, il dilemma di ogni startup, il dilemma che hanno sentito anche Larry Page e Sergey Brin quando hanno fatto Google, e Mark Zuckerberg con Facebook, questo dilemma lo leggi chiaramente nel volto di Paolo Galvani. Che ha un volto cordiale ma vagamente tirato, per niente abbronzato, sollevato direi, come di chi ha danzato a lungo sul ciglio del burrone (fuori di metafora: se non chiudeva il round, chiudeva l’azienda, del resto è questo il destino delle startup che “bruciano” un sacco di soldi in investimenti nella speranza di crescere e conquistare il mondo, è la scommessa è tutta nella capacità di trovare ogni volta più soldi della volta precedente).
Soprattutto mi appare concentratissimo, in questo mondo lo chiamano “avere focus” che non è il fuoco sacro ovviamente, ma un unico obiettivo, senza distrazioni. Al punto che quando all’inizio, per rompere il ghiaccio, gli faccio una battuta, neanche se ne accorge. Succede che la sede di Moneyfarm sia a via Antonio da Recanate proprio accanto ad un ristorante che ha mess insegne dappertutto, impossibile non notarlo: si chiama Pianeta Luna. “Mi hai invitato a casa” gli dico. Lui mi guarda smarrito e poi mi dice che mica lo sapeva come si chiamava il ristorante che ha sotto l’ufficio. Si chiama focus.
Moneyfarm è una bella storia che seguo da lontano da anni. E’ dall’inizio che si dice che si tratta di una bella idea con una tecnologia che funziona. E’ per questo che tutti i premi e i premietti per gli esordienti, li ha vinti tutti diventando il campione nazionale di un settore che fino a qualche anno fa neanche esisteva: il fintech, la startup digitali che innovano la finanza. Poi a un certo punto ho iniziato a sentire un certo scetticismo. Soprattutto fra i banchieri si ascoltavano discorsi tipo “sì, sono bravi, certo, ma sono arrivati tardi, ci sono nel mondo competitor più agguerriti”. Morale: falliranno. E invece no: nel frattempo qualche banca è fallita, qualche altra è stata salvata per decreto, migliaia di sportelli hanno chiuso, qualche banchiere famoso è andato a casa per manifesta incapacità manageriale. E Moneyfarm è lì, che cresce giorno dopo giorno.
La dimostrazione che un'altra finanza è possibile
Come finirà, lo vedremo. Come è iniziata vale la pena di scoprirlo perché Moneyfarm è già adesso una lezione su cosa funziona e cosa non funziona nel mondo delle startup nostrane; e ma soprattutto perché Moneyfarm è la dimostrazione che un’altra finanza è possibile, che la tecnologia può abilitare un sistema in cui i risparmiatori diventano investitori senza trucchi e senza inganni, senza commissioni nascoste e interessi occulti. Insomma, l’inizio della storia.
E’ il 1965. Paolo Galvani nasce a ottobre a Marostica, provincia di Vicenza, terra di orafi sopraffini. I suoi genitori fanno altro, due lavori normalissimi, che consentono al figlio di studiare tranquillo e laurearsi in statistica economica all’università di Padova. Destinazione: una banca. Inizia naturalmente alla Popolare di Vicenza, ufficio titoli, praticamente fa quello che oggi fa il software di Moneyfarm, consiglia come investire i risparmi. È bravo, e da lì finisce in Lussemburgo per IMI, cinque anni, e a Londra per Morgan Stanley e poi Deutsche Bank, altri cinque anni, diventa esperto di prodotti finanziari, “metto il naso nella finanza retail”, dice lui con linguaggio tecnico.
Nel 2003 torna a Milano, si sposa fa due figli e gli affidano una società di Banca Sella, quella che si occupa della gestione di asset, grandi patrimoni. Solo tre anni, perché commette “l’errore più grande che potessi fare”, torna di nuovo a Londra per tornare a lavorare per Deutsche Bank, ma capisce subito che rischia “di finire di fare il bancario per tutta la vita, ma avevo già capito che quello non era il mio mondo”. Tra l’altro era un mondo che stava crollando, sarebbe crollato, rovinosamente, portando a fondo le economie di mezzo mondo, nel 2008. “Me ne sono andato via subito prima, ho negoziato un incentivo per uscire e sono uscito”. Ma questo era solo l’antefatto. La storia di Moneyfarm inizia adesso.
Gli inizi, nel 2009, con la finanza mondiale in ginocchio
E’ il 2009. La finanza mondiale è già andata a gambe all’aria. Il simbolo sono i banchieri di Lehman Brothers che lasciano i loro mega uffici di Wall Street con gli effetti personali in una scatola di cartone. Fallimento. Paolo Galvani è tornato a Milano. Da un paio di anni si è messo a studiare per cercare di capire “come la tecnologia può cambiare i servizi finanziari”. Tradotto: meno fregature per i risparmiatori e meno cibo per gli squali. Nel 2007 ha partecipato come socio, con un ex collega di Banca Sella, alla fondazione di Prestiamoci, una startup di prestiti peer-to-peer, in pratica prestiti fra persone. Che ancora esiste, tra l’altro, buon segno: ma non è nemmeno quello il suo mondo. “Io sono una persona di investimenti, non di prestiti”.
E occupandosi di investimenti per un decennio, ha capito che c’è un bisogno (le uniche startup che hanno un senso partono sempre da un bisogno da colmare): “Io l’ho visto come vengono trattati i risparmiatori quando entrano in banca con l’idea di investire qualcosa. Ed ero, diciamo così, infastidito dalla assoluta mancanza di consulenza indipendente”. Può sembrare un cavillo, la fissazione di un tecnico, e invece è questo il motivo per cui ci sono stati gli scandali di Banca Etruria e prima ancora di decine di altre banche, con i risparmiatori truffati, e quando non truffati, beffati, e i risparmi di una vita in fumo (in qualche caso in parte recuperati per decreto attingendo ai fondi bancaria di garanzia). “Perché a persone di 80 anni vengono attribuiti profili di rischio massimo e gli vengono affibbiati titoli con ritiro fra 20 anni? Non è una battuta. E’ successo. E succede perché manca una consulenza indipendente”.
Perché il sistema finanziario così non regge
Paolo Galvani il sistema non lo ha solo studiato. Lo ha fatto funzionare. Ne era un ingranaggio fondamentale. Ecco perché quando mi dice “è un modello che non regge” la mia soglia di attenzione di alza al massimo livello. Perché non regge? “Perché si basa tutto sulle commissioni di collocamento. Il consulente finanziario incassa in percentuali diverse in base ai pacchetti di titoli che ti convince a comprare. Ed è portato a venderti non i titoli più adatti al tuo profilo, che può avere una propensione al rischio molto diversa, ma quelli che lo fanno guadagnare di più. Non è un vero consulente, è un venditore mascherato. E questo crea i danni che abbiamo visto”.
Ma perché non regge? A parte i risparmiatori che a volte ci rimettono tutto, il modello regge benissimo no? “No. Il modello funziona sulle commissioni dicevo e queste sono davvero esagerate. Faccio un esempio. Quanto sei disposto a pagare per la consulenza su un investimento di 10 mila euro? Diciamo 100 euro? E’ già tantissimo. L’uno per cento. Eppure le commissioni reali, ma non dichiarate, sono molto più alte”. Quanto? “A spanne posso dire che quando comprate dei titoli, un terzo di quel che pagate è il prodotto, e due terzi sono la consulenza e la rete bancaria che gestisce l’operazione”. Per questo non regge? “Questa cosa funziona per i grandissimi investitori, che infatti ricevono una consulenza davvero personalizzata, su grandi capitali le commissioni giustificano un lavoro di quel tipo. Ma per tutti gli altri no: i piccoli risparmiatori sono invitati a comprare solo i titoli che retribuiscono di più il venditore, e in più pagano commissioni nascoste davvero esagerate”.
Qui nasce l’idea di Moneyfarm: offrire una consulenza onesta, adeguata ed economica a tutti, anche i piccolissimi risparmiatori. Come? Con la tecnologia. In pratica il consulente è un robot, ovvero un sistema di intelligenza artificiale molto umano, come vedremo. “In questo modo i costi sono abbattuti, e noi non guadagniamo su quel che vendiamo, ci è indifferente se compri il prodotto A o il prodotto B, anzi ci conviene farti spendere il meno possibile per poterti offrire altre opportunità”.
L'idea di una finanza onesta
Questa l’idea di base: uno robo-advisor. Nel 2009 negli Usa si vedevano già i primi tentativi in questo senso. Galvani ne inizia a parlare con ex collega di Banca Sella come Paolo Gesess che nel frattempo aveva aperto un piccolo fondo di venture capital, Jupiter, e nel 2010 con 700 mila euro di investimento (300 da United Venture, che Gesess aveva fondato con Massimiliano Magrini; e il resto da amici e parenti, family and friends come si dice) nasce MoneyFarm (“il nome lo ha trovato una agenzia creativa dopo una settimana di discussioni e ci è piaciuto subito tantissimo). Partono in cinque, in un appartamentino a Città Studi, in via Fucini. E tra i cinque c’è una figura chiave del successo: Giovanni Daprà, 26 anni anni, conosciuto in Deutsche, dove aveva dimostrato doti di analista con passione per la tecnologia.
La partenza di una startup in Italia non è semplicissima. Nel settore del fintech è peggio. Se poi ti proponi di gestire i risparmi delle persone, devi passare per l’autorizzazione di Banca d’Italia, “che per cominciare di chiede di depositare 400 mila euro”. Si dirà, è così ovunque. “Non è vero, nel Regno Unito per la startup fintech c’è una legislazione a parte, chiamata sandbox, che consente di sperimentare cose nuove per un tempo limitato con regole diverse”. Da noi no. Ecco perché il vero lancio di MoneyFarm è nell’estate del 2012. Lancio si fa per dire: “Il prodotto era molto rudimentale, all’inizio praticamente i primi clienti eravamo noi stessi”. Ma l’idea piace, e United Ventures guida un secondo round di investimenti da due milioni di euro. Come quando a poker vedi le carte, ti convinci che sono buone e fai un rilancio.
Il cuore di Moneyfarm è un questionario
Il rilancio consente di affinare il prodotto. Non solo la parte tecnologica, ma quella psicologica. Il cuore di MoneyFarm infatti è un questionario di una ventina di domande (“all’inizio erano cento”) che costruisce un profilo di rischio e di ambizioni di chi lo compila. Può sembrare banale ma è la base della cosiddetta “finanza comportamentale”. Spiega Galvani: “La finanza classica si basa su una assunzione molto forte, che tutte le scelte che facciamo siano razionali. Ma non è così, vent’anni di studi, che hanno portato a diversi premi Nobel, hanno dimostrato che non è così, molte scelte non sono razionali, ci sono dei “bias” cognitivi che ci condizionano, dei pregiudizi”.
Il questionario lo costruisce una delle persone che ha consentito a Moneyfarm di essere quello che è oggi: “Barbara Alemanni, insegna alla Bocconi, ci ha aiutato dal primo giorno”. Una volta creato il profilo psicologico “viene abbinato al miglior portafoglio possibile di titoli, selezionati dal nostro comitato investimenti sulla base di parametri quantitativi”. L’automazione è tutta qui, ma porta ad un abbattimento delle commissioni allo 0,6 per cento e soprattutto ad una consulenza, diciamo così, “oggettiva”.
L'investimento di Allianz cambia la partita
Moneyfarm a questo punto cresce. Clienti e fatturato col segno più, “raddoppiati ogni anno”, gli utili no però, “perché decidiamo sempre di reinvestire tutto, non è il momento di fermarsi, dobbiamo ancora crescere”. I soldi finiscono di nuovo e nel 2016 tra i soci entra un colosso assicurativo come Allianz, prende il 9 per cento della società per circa sette milioni di euro (l'azienda finora ha raccolto circa 70 milioni di euro, dati Crunchbase). E l’antipasto del maxi aumento di capitale di qualche mese fa, guidato proprio da Allianz che quando si tratta di startup non si limita a riempirsi la bocca di parole evidentemente, ma fa sul serio. Ci vede una opportunità di business reale. E una scalabilità fuori dall’Italia. Il Regno Unito già fatto, “ora stiamo valutando Francia, Germania o Spagna”. E ci sono nuovi prodotti finanziari in arrivo: il primo sul fronte delle pensioni.
Ovviamente la corsa non è finita. Anche perché la società ancora brucia diversi milioni di euro l’anno: “Il dubbio di fondo, la nostra grande domanda è: come trovare un equilibrio fra velocità di crescita e sostenibilità economica. Ovvero quando è il momento di ridurre le spese di marketing per trovare nuovi clienti, oggi sono 30 mila fra Italia e Regno Unito, e concentrarmi sul profitto?”. Nei business plan di maggio, il pareggio, il mitico break even, è previsto per il 2020. Vedremo. Intanto la società è valutata attorno ai 100 milioni, lui e Giovanni Daprà ne detengono ancora circa il 10 per cento, non è male come risultato.
Certo, Galvani si rende perfettamente conto che con il suo progetto sfida frontalmente una intera categoria professionale, quella dei promotori finanziari. “Saranno più di 30 mila in Italia”. Che fine faranno? “Devono cambiare modello”. Ma non parla da trionfatore, non è il suo carattere. E porta le cicatrici di aver condotto con successo una startup in Italia (“lo so che qui è più duro che a Londra, lo co che i soldi per crescere li ho dovuti trovare in Europa, però sticazzi, non mi appassiona il tema del lamento nazionale”).
Profilo basso, mai un accenno di 'populismo' nel racconto
Quando gli chiedo perché non si trasmetta felicità il suo racconto, ma piuttosto una battaglia in corso, mi dice: “Sono stati mesi pesanti, prima dell’ultimo aumento di capitale. Dovevamo trovare tanti soldi, vedevamo l’interesse degli investitori, ma fino a quando non chiudi non è fatta. E se non ce l’avessimo fatta, saremmo andati tutti a casa. E sarebbe stato davvero un peccato”.
Prima di salutarlo gli chiedo perché in questi anni Moneyfarm abbia tenuto un profilo così basso, in fondo ribaltano il sistema finanziario che non è popolarissimo, potevano presentarsi come dei Robin Hood in difesa dei risparmiatori, invece sono sempre rimasti sobri, mai un accenno di quel populismo che adesso va tanto di moda. “Forse avremmo potuto essere più aggressivi è vero, ma noi non siamo quella roba lì. Epperò a gennaio entrano in vigore le nuove regole europee, la direttiva Mifid II, prevede fra le altre cose che le commissioni debbano essere rese esplicite al cliente. Tutti allora capiranno la differenza fra noj e gli altri”. E per un attimo finalmente, sorride.