Consapevoli dei cambiamenti. Anzi: più pessimiste delle colleghe estere. Eppure le imprese italiane fanno molto meno per adeguarsi. Insomma, discrete osservatrici, ma poco reattive. È il quadro che emerge dal rapporto Global Talent Trends Study 2018 di Mercer.
Italia pessimista ma poco reattiva
Lo studio è stato realizzato mettendo a confronto 7600 tra alti dirigenti, responsabili delle risorse umane e dipendenti in 57 Paesi. Il 71% dei top manager italiani prevede che almeno un ruolo su cinque nella propria organizzazione cesserà di esistere nei prossimi cinque anni. Un dato tra i più alti a livello globale, di gran lunga superiore rispetto al 53% medio. Eppure, le imprese del nostro Paese non si stanno muovendo abbastanza in fretta per ammortizzare i rischi che questa previsione comporta, per tutelare se stesse e i propri dipendenti. Solo il 31% delle aziende italiane sta aumentando l'accesso ai corsi di apprendimento online (il 9% in meno rispetto alla media globale) e ancora meno (il 17%) sta promuovendo attivamente la rotazione tra ruoli all'interno dell'azienda (anche qui la percentuale è di 9 punti sotto la media complessiva).
Tradotto: poca formazione per adattare la forza lavoro al futuro. E non sempre è una questione di cassa, quanto di capacità. Rispetto ai colleghi stranieri, i manager italiani che si occupano di risorse umane si sentono meno preparati nella riqualificazione delle competenze dei dipendenti già in azienda (solo il 46% lo è). E anche per questo motivo si preferisce assumere lavoratori già formati (nel 57% dei casi) piuttosto che riqualificare quelli già sotto contratto.
Digitale e flessibilità: molte parole, pochi fatti
Dai dati di Mercer sembra emergere una costante: in Italia c'è uno scollamento tra ciò che si pensa e ciò che si fa. Tutte le società interpellate dicono di aver inserito l’innovazione nel proprio piano d’azione per l’anno in corso e il 96% sta pianificando cambiamenti nel disegno organizzativo. La richiesta di innovazione arriva anche dei dipendenti: il 62% ritiene che la tecnologia sia cruciale per il successo del business, ma solo un terzo (rispetto al 48% del dato globale) afferma di disporre degli strumenti digitali opportuni per svolgere il proprio lavoro e solo il 33% (anche qui, in rincorsa rispetto alla media del campione del 43%) interagisce già con le risorse umane attraverso canali digitali.
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La distanza tra propositi e fatti si nota anche quando si parla di flessibilità. I dipendenti chiedono oggi un maggiore controllo delle proprie vite personali e professionali. Desiderano opzioni di lavoro più flessibili e le aziende (nel 96% dei casi) si dicono pronte ad accontentarli. Ma cosa succede quando serve tradurre la volontà in realtà? Solo il 15% dei direttori delle risorse umane italiani considera la propria azienda capace di offrire opzioni efficaci che integrino la flessibilità nell'organizzazione aziendale. E il 58% dei dipendenti italiani (contro il 41% globale) teme ancora che la scelta verso forme di lavoro flessibili possa incidere negativamente sulla propria carriera.
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“A mio parere - spiega Silvia Vanini, partner deputy career leader di Mercer - in Italia la sfida per il capitale umano portata dall’industria 4.0 si incontra con le peculiarità del business model, caratterizzato da componenti ad elevata artigianalità, e del tessuto produttivo nazionale. A nostro parere, come per altri momenti di discontinuità, è proprio in queste fasi iniziali che si sta tracciando uno spartiacque tra le realtà più proattive e le altre, laddove solo le prime si stanno attrezzando per gli impatti organizzativi del cambiamento”.