(in collaborazione con Alberto Rossi, analista CeSIF-Centro Studi per l'Impresa, Fondazione Italia Cina)
La visione politica promossa da Xi Jinping di una “nuova era” del socialismo con caratteristiche cinesi è fortemente radicata nell’economia. “Dopo il diciannovesimo Congresso, politica ed economia sono, se possibile, ancor più collegate di prima” dice Alberto Rossi, analista CeSIF-Centro Studi per l'Impresa, Fondazione Italia Cina.
Il Congresso del PCC si è concluso con l’inserimento del pensiero di Xi Jinping nello statuto accanto al suo nome, ponendolo sullo stesso piano di Mao Zedong e di Deng Xiaoping. Sono stati nominati i sette nuovi leader del Comitato Permanente del Politburo, che guideranno il Paese fino al prossimo Congresso del Partito, il ventesimo, nel 2022. Xi non ha designato un erede a succedergli tra cinque anni, il suo mandato potrebbe dunque andare oltre i canonici dieci anni.
Obiettivo il Piano 'Made in China 2025'
Con l’ingresso del teorico Wang Huning nel comitato permanente del Politburo, il gotha del potere cinese, l’ideologia nei prossimi anni è destinata ad avere un fortissimo peso. Maggiore dell’economia? Se lo chiedono in questi giorni gli osservatori politici, ancora incerti se definire Xi un conservatore o un riformatore, alla luce dello stallo in cui versano le riforme strutturali (quelle delle aziende statali, per esempio). Una cosa appare chiara: l’ingresso nella stanza dei bottoni dell’ex leader del Guangdong, Wang Yang, noto per le sue idee liberali, potrebbe dare una forte spinta alle riforme, mentre sembra indebolito Li Keqiang (riconfermato premier), le cui strategie economiche cedono il passo a quelle di Xi Jinping, che sono entrate nello statuto insieme al suo pensiero. Un passaggio che garantisce al ‘presidente di tutto’ una influenza perenne.
Un altro segnale positivo per il futuro dell’economia è l’ingresso nel Politburo di Liu He, considerato la mente liberale del presidente cinese: “Sarebbe fuorviante fare una 'classifica' in cui considerare quale sfera abbia maggior peso”, dice Rossi. “Il ‘sogno cinese’ di divenire una economia pienamente sviluppata entro il 2049, a 100 anni dalla nascita della Repubblica Popolare (RPC), è fortemente connesso a una piena attuazione del modello economico del ‘New Normal’ e delle riforme che questo porta con sé”. La nuova normalità dell’economia, che individua una crescita meno rapida e maggiormente sostenibile, con un'attenzione molto forte alla qualità, è in transizione: “Su alcuni temi la strada percorsa è già significativa – dice Rossi - ma davanti c’è un lungo cammino da non interrompere: crescita dei consumi in primis, ma anche servizi, urbanizzazione, sviluppo tecnologico”.
La vera sfida del secondo quinquennio di Xi? “Provare a invertire la rotta su quegli obiettivi ben lontani da una fase di implementazione, contenimento del debito e riduzione della sovraccapacità. La parola chiave sarà produttività, e per questo sarà fondamentale sviluppare con forza il piano Made in China 2025. La stessa Belt and Road Initiative (BRI) potrà anche ricondursi a questa tematica, relativamente all’aspetto dell’Industry Capacity cooperation e all’esportazione di capacità produttiva”, aggiunge Rossi.
Che tipo di riforme possiamo aspettarci? “Sarà fondamentale per il governo cinese affrontare le urgenti questioni relative al settore finanziario e alle imprese di Stato”. Inefficienti e indebitate. Una sfida nevralgica: “Il debito derivante dalle imprese conta per i due terzi del debito totale, ed è trainato fortemente dalle aziende pubbliche". Servirebbe una riforma di grande profondità, ma non sarà affatto facile dato che comporterebbe conseguenze e turbamenti politici rilevanti, che Xi non può sottovalutare, dovendo dunque cercare un faticoso equilibrio tra questi due aspetti”. Non possiamo tralasciare poi l’aspetto demografico: “Uno degli effetti della politica del figlio unico è il livello estremamente accelerato di invecchiamento del Paese, che porta con sé diverse problematiche in ambito di lavoro, welfare, salute. Dopo la liberalizzazione di questa politica, che non ha ancora prodotto inversioni di rotta, sarà addirittura possibile aspettarsi agevolazioni per la nascita di secondi figli”.
Più difficile l'accesso straniero
Una nota dolente riguarda la chiusura del mercato lamentata negli ultimi anni dalle imprese straniere in Cina. Xi propugna la globalizzazione e il libero mercato, ma l’accesso degli investitori stranieri è sempre più difficile. Insomma, la Cina di Xi sarà una economia aperta o chiusa? “Dal Congresso è emerso, come di consueto, una sorta di ‘doppio binario’ cinese: da un lato la comunicazione di un sistema economico più aperto al mondo, dall’altra parte una presenza ancora più significativa del Partito nel modello economico, anche relativamente alle imprese private, che sembra andare in direzione opposta”, spiega Rossi.
E’ un dato di fatto: nei primi cinque anni dei governo targato Xi l’economia si è rivelata meno aperta, con un “business environment” più ostile alle multinazionali straniere rispetto ai concorrenti locali, come hanno mostrato anche i dati in calo degli investimenti in entrata negli ultimi due anni. “Lo stesso progetto Made in China 2025 può garantire una maggiore apertura nel breve periodo nei settori strategici per la ricerca di know how tecnologici, che potrebbe però ribaltarsi nel medio periodo, una volta che Pechino riterrà di aver raggiunto i propri scopi – sottolinea Rossi -. D’altra parte, su due ambiti diversi, i piani di realizzazione di progetti condivisi da un lato - primo su tutti la BRI - e il boom dei consumi dall’altro, potranno accrescere attività e scambi che portino a mutui e reciproci benefici. Sta anche a noi farci trovare pronti su questi versanti”.
Illustrazione infografica - Quanto vale l’economia cinese? La Cina nel terzo trimestre 2017 segna una crescita al 6,8%, in calo di un decimale rispetto al dato dei primi sei mesi, quando era al 6,9%, ma comunque in linea con le attese degli analisti e al di sopra dell’obiettivo fissato a marzo scorso dal governo del 6,5%. Il Pil nei primi nove mesi del 2017 è stato pari a 8.894 miliardi di dollari.
Quanto pesa il Pil cinese sul Pil globale? Il 14,87%. “Al di là del rallentamento della crescita nel 2016, questa percentuale cresce in maniera molto rapida, di circa un punto annuo tra il 2006 e il 2015”, commenta Alberto Rossi. Paragoniamo due periodi per capire l’accelerazione dell’ultimo decennio. Nei 25 anni che intercorrono dal 1980 (2,75%) al 2005 (4,8%), la quota dell’economia cinese su quella globale è aumentata di due punti percentuali. In poco più di undici anni, dal 2005 al 2016, la quota è passata dal 4,8% al 14,87%.
Quali settori? Nel 2016 nel comparto primario la Cina ha inciso sul Pil globale per il 21%, nel secondario per il 18,9%, e nel terziario per l’11,76%.
Quanto pesa la crescita del Pil cinese sulla crescita del Pil mondiale? Nel 2016, fatta cento la crescita del Pil mondiale, quello cinese ha pesato per il 22,44%.
“Dal grafico si vede benissimo come dal 2005 a oggi la Cina abbia registrato un’ascesa netta. La crescita continua anche negli anni di Xi Jinping”, sottolinea Rossi. “Nonostante l’enfasi posta sulla strategia del “New Normal”, la nuova normalità dell’economia che individua una crescita meno rapida e maggiormente sostenibile, dunque non più a due cifre, con una attenzione molto forte alla qualità piuttosto che alla quantità, il peso del Pil cinese su quello globale è continuato a crescere in maniera significativamente rilevante”.
Illustrazione infografica - La crescita del Pil, tra il 6,8% e il 6,9%, è in linea con gli obiettivi dell’economia cinese nella fase del New Normal. Il dato più significativo riguarda l’evoluzione del settore terziario, che nei primi tre trimestri del 2017 cresce del 7,8%. La crescita del terziario è trainata da due fattori: leasing e servizi commerciali (+10,5%), ma soprattutto il boom del settore IT (Information Technology) e software (+23,5%), a conferma del fatto che la Cina stia puntando sempre di più allo sviluppo tecnologico. In generale, cresce il settore dei servizi, che per la prima volta nel 2015 supera il 50% del Pil e la somma dei settori primario e secondario: era al 51,6% nel 2016, nei primi nove mesi di quest’anno è al 52,9%, superando la somma di industria e agricoltura.
“Questi dati ci forniscono una ulteriore conferma del processo in atto del New Normal”, dice Alberto Rossi. Il piano Made in China 2025, che individua i dieci settori strategici sui quali investire per trasformare il paese in una superpotenza industriale, è centrale in questo percorso.
Produzione "armoniosa e sostenibile"
Sono due gli elementi fondanti di questa strategia: “Anzitutto, spostandosi dalla ricerca di un Pil a doppia cifra che punta soprattutto alla 'quantità' della produzione, senza soffermarsi troppo sulla qualità, a una produzione 'più armoniosa e sostenibile' (come sottolinea la retorica ufficiale) trainata dall’upgrading dell’industria e dall’innovazione. Il secondo elemento riguarda la trasformazione del modello economico, da un sistema basato su investimenti e esportazioni a basso costo, a uno trainato dai consumi interni. Di sicuro il modello di sviluppo basato su investimenti in capitale fisso, produzione a basso valore aggiunto ed esportazioni che ha caratterizzato i 20 anni precedenti non è più sostenibile, perché porta a squilibri rilevanti, di cui la sovraccapacità è il più evidente. Rispetto a questo cambiamento, la transizione verso il nuovo modello pare ben avviata dalla conferma di alcuni dati (crescita dei consumi interni, ruolo del terziario, urbanizzazione, upgrading industriale e innovazione con maggiori investimenti in ricerca e sviluppo), mentre altri aspetti (diminuzione di investimenti pubblici improduttivi, contenimento del debito e miglioramento del sistema finanziario, sovraccapacità) sono ancora ben lontani da una effettiva realizzazione. Tale transizione è un passaggio storico, richiede tempo, non ha una progressione lineare e la conversione del modello ha inevitabilmente anche ricadute politiche e sociali” dice Rossi.
Illustrazione infografica - E’ la crescita dei consumi l’elemento che più di altri fotografa il processo in atto verso la nuova normalità dell’economia cinese. Nel 2016, fatta 100 la crescita del Pil, i consumi contavano per il 64,6%. Cosa significa? Quasi due terzi della crescita cinese derivavano dalle spese per i consumi finali, con gli investimenti fissi lordi al 42,2% e un export addirittura negativo, che contava per un -6,8% sulla crescita del Pil. Il trend del rinnovato peso dei consumi si rinforza nel primo trimestre 2017, quando la crescita del Pil era da ascriversi per il 77,2% proprio ai consumi, per il 18,6% agli investimenti e per il 4,2% all’export (tornato positivo).
I dati 2017 al 30 settembre riferiti alla crescita del Pil si riallineano invece a quelli del 2016, con i consumi che valgono per il 64,5% della crescita, gli investimenti per il 32,8% e l’export per il 2,7%. Pechino ha un rapporto consumi privati/Pil del 39,21%, un dato in crescita dal 2010 a oggi, ma che rimane ben al di sotto della media di altri Paesi. La media delle economie a medio reddito è di 50,85%, la media mondiale è del 58,31%, mentre quella degli Usa è al 68,10% e dell’Italia al 61,26%.
Shopping per 400 milioni di millennial
Nei primi nove mesi del 2017 i consumi pro capite sono cresciuti del 7,47%, un dato lievemente inferiore rispetto al 2016 (+8,51%). Interessante sottolineare come la crescita del reddito medio cinese consenta la differenziazione dei consumi, con i beni di sussistenza (alimentazione) che contano sempre meno sul totale (per la prima volta nel 2015 sotto il 30%, attualmente il 29,2%). Nel 2016 le vendite al dettaglio di beni di consumo hanno registrato una crescita del 10,4%, mentre le vendite retail online sono cresciute del 33%. Quanti sono i cinesi che fanno shopping online? A fine 2016, il 72,5% degli utenti internet faceva acquisti online (su 731 milioni di utenti, gli acquirenti sono 530 milioni). Di questi, 400 milioni circa sono millennial.
“La forte ascesa del peso degli investimenti sulla crescita nel secondo e terzo trimestre 2017, di chiaro impulso governativo, spiega la necessità che aveva Xi Jinping di arrivare 'pronto e bene' al Congresso: per ottenere determinati livelli di crescita, ci sono leve e pilastri del modello economico degli scorsi decenni per raggiungere i propri obiettivi, in un sottile equilibrio tra riforme economiche e necessità di crescita”, commenta Rossi. “Tuttavia, stimolare la crescita dei consumi interni rimane importante per lo stesso governo cinese. Si tratta di una tendenza in corso, sebbene la Cina abbia ancora molta strada da fare per raggiungere un rapporto consumi privati/Pil competitivo rispetto ad altre potenze economiche globali. Certamente, poi, l’apertura ai consumi non vuol dire l’apertura totale del modello economico, sono due temi ben differenti tra loro”.
Illustrazione infografica - Nel 2015, l’export registrava un calo del 2,57% mentre l’import declinava del 14,15%. Nel 2016, l’export cala del 7,71% e l’import 5,49%. Nei primi nove mesi del 2017 la tendenza si è invertita: l’export cresce del 5,54% e l’import del 17,06%.
Il dato specifico con l’Italia è ancora più positivo per la Cina. Secondo i dati delle dogane cinesi (diversi dai dati di Istat e Eurostat), nei primi nove mesi del 2017 l’import italiano dalla Cina è cresciuto del +7,82, (a quota 21,65 miliardi di dollari), mentre l’export italiano ha appena superato 15 miliardi, con una crescita del 23,34%. I dati Istat/Eurostat vedono invece l’export italiano in Cina vicino al 30% circa.
“Anche i dati sull’interscambio mostrano come Xi Jinping abbia utilizzato nel 2017 le leve economiche del modello precedente”, commenta Alberto Rossi. “La Cina, che si proclama leader della globalizzazione, ha registrato per due anni dati un forte calo sull’interscambio, riconducibile al cambio di modello. Anche questa inversione di tendenza, come per gli investimenti, conferma l’utilizzo delle leve economiche del modello precedente, nell'ottica del Congresso”.
Illustrazione infografica - Un dato che dimostra come questi cambiamenti in atto non comportino necessariamente un’apertura all’economia globale, è il calo, seppur lieve, che si è registrato nel 2017 degli investimenti esteri in Cina. I dati dei primi 9 mesi del 2017 mostrano un declino del 3,16%, in contrasto con la crescita quasi costante che si è avuta dal 1994 al 2015: in 20 anni gli investimenti esteri in Cina si sono tendenzialmente quadruplicati, passando da 37,5 a 135,6 miliardi di dollari. Per la prima volta nel 2016 si è registrato un calo dell’1,21%, mentre nei primi nove mesi del 2017 si registra una decrescita (-3,16).
“A Davos, a inizio 2017, Xi Jinping è stato mediaticamente esaltato come 'alfiere della globalizzazione', certo in contrasto con alcune visioni politiche di Trump, ma dobbiamo ricordare che la Cina rimane un mercato con un ambiente chiuso e protezionista in diversi settori, e dove negli ultimi anni si è registrato da parte delle imprese un sentimento di maggiore difficoltà nel fare business. Il governo ha modificato alcuni approcci nei confronti delle multinazionali estere, e il calo degli investimenti mostra anche questa tendenza”, commenta Rossi.
Finita l'età d'oro delle multinazionali
Sono le stesse imprese straniere a dichiarare finita l’età dell’oro per le multinazionali. Oggi le prospettive di crescita ci sono ma il mercato è più complesso; fino a qualche anno fa gli investimenti servivano soprattutto per delocalizzare, mentre con l’ascesa rapida dei costi ora sono i consumi interni la principale motivazione della presenza in Cina. Oggi che il Paese punta a smarcarsi dall’immagine di fabbrica del mondo, le aziende straniere devono fare i conti anche con la crescita della competitività cinese e con un diverso livello tecnologico. I settori di massima chiusura sono - secondo l’Ocse - media, radio, tivù, comunicazione, telefonia fissa, mobile, pesca e settore marittimo, legale.
“Il protezionismo dipende dal livello di importanza strategica dei settori, e si estrinseca in più modalità: controllo sul mercato tramite aste e bandi pubblici gestiti in maniera tale da favorire le imprese locali; restrizione degli investimenti in determinati settori e nicchie; accesso privilegiato al credito delle imprese statali, sempre più competitive; la stessa legge sulla cybersecurity, che in ottica di sicurezza nazionale imporrà ulteriori restrizioni e controlli sulle attività straniere in Cina in diversi settori. Certo poi dall’altra parte la riduzione del numero di settori ristretti nell’ultima revisione del catalogo degli investimenti in entrata e la costituzione di alcune Free Trade Zones (in particolare Shanghai, Tianjin, Guangdong, Fujian) sono da leggersi anche in un’ottica di maggiori possibilità di accesso al mercato”, continua l’analista.
Gli investimenti italiani in Cina
Il 2017 ha segnato una ripresa positiva del flusso di investimenti italiani in Cina dopo due anni in calo. In generale, rispetto a qualche anno fa si registra un minor numero di investimenti, ma più strutturati da parte delle grandi aziende. Gli investimenti italiani in Cina al 31 agosto 2017 erano pari a 161,08 milioni di dollari, una crescita del 41,22% rispetto allo stesso periodo del 2016, quando ammontarono a 114,06 milioni.
Illustrazione infografica - L’altra faccia della medaglia è rappresentata dagli investimenti cinesi nel mondo, che sono cresciuti a dismisura dai 55,90 miliardi di dollari del 2008 ai 196,15 miliardi di dollari del 2016.
Tuttavia, le preoccupazioni sulla tenuta del sistema finanziario hanno portato le autorità cinesi a una stretta degli investimenti cinesi. Gli investimenti cinesi outbound non finanziari al 30 settembre del 2017 erano pari a 78,3 miliardi di dollari, in calo del 41,86% rispetto ai primi nove mesi del 2016.
“La preoccupazione sulla tenuta del sistema finanziario, riferita in particolare alla fuga dei capitali all’estero, ha portato le autorità cinesi a porre un freno agli investimenti e a dividerli in tre categorie: vietati, incoraggiati e ristretti (colpendo principalmente le conglomerate d’affari privati, i cosiddetti rinoceronti grigi). Al timore per la fuga dei capitali, si è aggiunta la preoccupazione per il calo delle riserve in valuta estera, che a gennaio sono scese, per la prima volta dal febbraio del 2011, sotto la soglia psicologica dei 3mila miliardi di dollari (erano 4mila nel giugno del 2014)”, dice Alberto Rossi.
Da Pechino all'Europa
I cinesi investono in Europa soprattutto per acquisire know how e trasferire le competenze tecnologiche in Cina, che ne ha bisogno per compiere il salto verso una manifattura di qualità. Lo shopping cinese nei settori ad alto valore aggiunto tecnologico si riflette nella crescita degli investimenti all’estero nel settore manifatturiero, che passano dal 13,7% del 2015 al 19,4% del 2016.
Questa dinamica si inserisce nelle logiche del piano Made in China 2025 e prevede inoltre l’acquisto di aziende ad alta tecnologia all’estero. Qui si inserisce il tema della reciprocità, esploso nel 2016 con l’acquisto del 35% del costruttore tedesco di robot Kuka da parte di Midea, mal digerito da Angela Merkel, e sfociato nello scudo anti-predatorio a difesa degli interessi strategici dell’Europa annunciato dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker su richiesta di Germania, Francia e Italia. “Un piano doveroso, seppur perfettibile”, commenta Rossi. “Porre il tema della reciprocità è fondamentale, anche se raggiungere una piena reciprocità con i cinesi penso sia quasi impossibile. Il vento mutato in Europa che vuole chiedere maggiori controlli, e in Cina che ha imposto una stretta sulla fuoriuscita di capitali, porterà a un maggiore monitoraggio degli investimenti. Nonostante la centralità dell’iniziativa Belt and Road (la nuova Via della Seta), progetto che vedrà la sua concreta attuazione in ottica di investimenti soprattutto nel prossimo decennio, non è questo il momento migliore per i reciproci investimenti, sia dalla Cina all’Europa sia dall’Europa alla Cina”.
Secondo i dati del Mofcom riportati dal Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina (CeSIF), il 12,3% degli investimenti cinesi non finanziari ricadono sotto il cappello di Belt and Road (BRI): nei primi 9 mesi del 2017, gli investimenti cinesi all’estero sono stati pari a 78,03 miliardi di dollari, mentre gli investimenti in quota BRI sono stati di 9,6 miliardi.
“È importante notare che la quota di investimenti che si riconduce alla Belt and Road Initiative non è ancora alta, rispetto al totale degli investimenti cinesi all’estero – dice Rossi - e ciò significa che prima ancora di un grande piano di investimenti, l’iniziativa Belt and Road è attualmente soprattutto la costruzione di una piattaforma di relazioni, che ha come obiettivo principale non tanto lo sviluppo di nuove piattaforme logistico-infrastrutturali - questa può essere solamente la prima fase – bensì rappresenta un vero e proprio piano di nuova globalizzazione cinese, che punta sulla tutela e sulla protezione degli interessi cinesi all’estero. Sarà importante anche nell’ottica delle relazioni sino-europee capire se davvero si riuscirà a individuare uno sviluppo di mutuo beneficio e di cooperazione win win”.
Da Pechino a Roma
Nel 2016, l’Italia si è confermata come il terzo Paese europeo di destinazione degli investimenti cinesi, con 12,84 miliardi di dollari di stock. Gli investimenti cinesi in Europa nel 2016 sono stati in totale pari a circa 35 miliardi di dollari, contro gli 8 miliardi di investimenti europei in Cina: una netta distinzione che ha riproposto il tema della reciprocità sopra segnalato.
Illustrazione infografica - Il debito cinese nel 2016 è cresciuto del 75% rispetto al 2015, e del 254% rispetto al 2012. Secondo stime McKinsey, sempre il debito supera fortemente il valore di 30mila miliardi di dollari, mentre il Pil valeva 11,203 miliardi di dollari. Anche secondo Scotiabank, a marzo 2016 il debito cinese sul Pil era del 255%, di cui il debito societario rappresentava il 169%, il debito delle famiglie il 41%, e il debito del governo il 45%. Le imprese di Stato rappresentano il 22% dell’economia nazionale ma assommano il 65% del debito societario. I settori più esposti al debito sono chiaramente quelli più affetti da sovraccapacità produttiva (acciaio, carbone e vetro).
“Questa è una delle maggiori fatiche che la transizione del modello New Normal deve affrontare: l’esplosione del debito, trainata soprattutto dalle grande aziende di stato, in un sistema drogato dall’afflusso di finanziamenti, agevolazioni, incentivi statali”, spiega Rossi. “Un meccanismo che ha generato una enorme massa di debito. Le imprese di Stato sono molto meno profittevoli di quelle private. Sono questi gli elementi che dovrebbero portare il governo cinese guidato da Xi Jinping ad accelerare la riforma delle aziende statali”.
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