L'Australia chiude la porta del 5G a Huawei e Zte. Canberra ha vietato ai due colossi cinesi della telecomunicazione di fornire tecnologia per la rete di quinta generazione agli operatori di telefonia mobile.
I sospetti mai sopiti di cyberspionaggio - che da tempo limitano i piani di espansione delle due società nel mercato americano per le preoccupazioni legate ai rischi per la sicurezza nazionale - ora penalizzano le ambizioni tecnologiche di Pechino anche in un altro mercato potenzialmente redditizio: quello australiano.
Il governo federale ha emesso un comunicato che non lascia spazio a ripensamenti: “Vogliamo proteggere la rete 5G da accessi non autorizzati o interferenze, quindi da vendor che potrebbero essere soggetti a direttive extragiudiziali da parte di governi stranieri in conflitto con la legge australiana”. Nessun riferimento diretto ai due giganti, ma Huawei ha detto di essere stata informata della propria esclusione e di quella di Zte.
I loro legami con il governo cinese, smentiti a più riprese dalle stesse aziende, sono da tempo nel mirino dell’amministrazione Usa: l’operatore AT&T ha dovuto rinunciare a stipulare un accordo con Huawei proprio a causa di pressioni politiche.
I soliti sospetti
I big della telecomunicazione gareggiano in tutto il mondo per costruire le nuove infrastrutture in fibra ottica volte ad abilitare l’internet delle cose (il 5G sosterrà la crescente domanda di potenziamento della rete: offre maggiore velocità, minore latenza e una migliore prestazione nelle aree densamente popolate).
Era successo (di nuovo) il 13 febbraio; durante una seduta della Commissione del Senato sull’intelligence, i direttori delle sei principali sigle dei servizi segreti americane avevano espresso la loro preoccupazione per il successo di aziende provenienti dalla Repubblica Popolare cinese. Nel mirino, soprattutto i prodotti dei colossi Huawei e Zte: considerati potenziali attori di cyberintelligence contro gli interessi nazionali americani.
Appena qualche giorno fa, le due aziende erano state colpite dal National Defence Authorization Act: il programma da 716 miliardi di dollari per rafforzare la difesa e la sicurezza. Washington ha stabilito che le agenzie statunitensi non potranno più usare tecnologia cinese. Una mossa che ha scatenato l’ira del governo di Pechino.
La società di Shenzhen, fondata da un ex ingegnere dell’esercito cinese e descritta come “uno dei bracci del governo”, ha superato lo scorso settembre la Apple nel mercato della telefonia mobile. Insomma, il business dei colossi cinesi va a gonfie vele. A detta di Brad Pascale, il responsabile della campagna presidenziale 2020 di Trump, “sul 5G gli Usa sono 13 mesi in ritardo” rispetto alla Cina. E il fatto che Zte e Huawei siano le prime due aziende globali per numero di brevetti depositati, solleva i timori di una corsa all’egemonia cinese.
Trump contro l'egemonia cinese
Non è un caso che proprio Zte sia stata la prima vittima eccellente della guerra commerciale tra Usa e Cina (il numero due delle telecomunicazioni cinese - colpito a fine aprile dall’amministrazione Trump con una tagliola di sanzioni - ha infine raggiunto un accordo con il governo degli Stati Uniti per la sospensione del bando alle forniture, che da maggio a luglio aveva congelato il business dell’azienda cinese). Il bersaglio di Trump - esasperato dal surplus commerciale con la Cina e dalla necessità di proteggere le tecnologie americane dai presunti furti cinesi - è il piano "Made in China 2025", che promuove l’innovazione manifatturiera puntando sull’intelligenza artificiale; terreno di scontro nella contesa per l’egemonia tecnologica tra i due Paesi.
Alla vigilia del nuovo round di colloqui sulle dispute commerciali tra Usa e Cina, che riprendono con scarse aspettative, due editoriali del Washington Post e del Financial Times si interrogano sull’eccessiva paranoia americana nei confronti dell’emergente supremazia tecnologica di Pechino.
La reazione di Huawei
La replica di Huawei Australia non si è fatta attendere: “un risultato estremamente deludente per i consumatori”. La compagnia – ha precisato - “è leader mondiale nel 5G” e “da 15 anni ha fornito in modo sicuro al Paese tecnologia wireless”. A piangere è soprattutto la compagnia di Shenzhen: il danno economico è consistente giacché detiene circa il 55% del mercato australiano del 4G.
Dura la reazione del portavoce del ministero degli affari Esteri, Lu Kang, secondo cui l’Australia “non dovrebbe usare vari alibi per erigere barriere artificiali”, invitando Canberra ad “abbandonare i pregiudizi ideologici e a garantire condizioni di concorrenza leale alle compagnie cinesi”.
Sentimenti anti-cinesi
I sentimenti anti-cinesi serpeggiano da tempo in Australia. Come ricostruisce Formiche, lo scandalo che ha visto coinvolto il senatore Labor Sam Dastyari, accusato dal primo ministro australiano Malcolm Turnbull di aver ottenuto finanziamenti dal Partito Comunista Cinese negli anni di attività politica, ha dato il via a una campagna contro la presenza cinese in Australia. Nel dicembre del 2017 il parlamento ha approvato una legge che vieta le donazioni di governi stranieri. Una mossa cui hanno fatto seguito altri provvedimenti legislativi; una legge contro l’influenza straniera sulla politica australiana, approvata dal Senato a giugno, è stata ribattezzata dalle opposizioni “legge anti-cinese”.
Turnbull accusa Pechino di portare avanti “tentativi senza precedenti e sempre più sofisticati per influenzare il processo politico”. Inferocita la stampa cinese, cha ha definito la posizione di Canberra “irresponsabile”, “assurda”, “una disgrazia”.
Così, l’Australia si allea con gli Stati Uniti e respinge i presunti spioni dallo sviluppo della rete in fibra ottica.
Intanto Zte, nata a Shenzhen come la sua concorrente, in Italia si sta dando molto da fare: sta realizzando reti 5G e smart city con partner locali attraverso la creazione di centri di ricerca.