“Crediamo nella TERRA… Grande Madre Generatrice di ogni risorsa Alimentare. Nei Contadini i veri EROI del Nostro Tempo”. È una frase molto forte e di grande impatto che si trova scritta ed esposta nella bacheca esterna al panificio di Gabriele Bonci, il “Michelangelo della pizza”, come è stato di recente ribattezzato, il quale è ubicato in via Trionfale 30, a Roma, a pochi passi di distanza dal vecchio Mercato dei fiori. Una frase, se si vuole, anche molto “politica”, nel senso più genuino e trasparente del termine.
Gabriele Bonci ha infatti da poco scoperto la Garfagnana, dove ha deciso di ritirarsi per un po’ entrando in società con Maestà della Formica, un’azienda agricola nella zona intorno a Lucca, per cucinare nel Rifugio Alpi Apuane, nel borgo di Careggine, cinquecento anime in tutto, e dove in compagnia di tre enologi ha poi anche pensato di darsi all’agricoltura e alla produzione di Riesling in alta quota.
Quella di Bonci è certo una scelta individuale, che però si inserisce nel solco di un “movimento di ritorno alla terra” che negli ultimi tempi sta prendendo molto piede e si sta trasformando in una vera e propria tendenza, oltreché in uno stile di vita, se è vero che l’Italia – secondo i dati di Coldiretti – “è prima in Europa per numero di giovani occupati in agricoltura”.
La tendenza complessiva è frutto della elaborazione dei dati Istat relativi al lavoro e alla disoccupazione nel corso del mese di aprile 2019.
Meglio ancora: per essere più espliciti, l’impiego di under 35 nel settore agricolo fa registrare numeri che sono in palese controtendenza rispetto al dato occupazionale giovanile nel nostro Paese con un incremento proporzionale di oltre 4 punti percentuali rispetto all’anno precedente.
Un movimento del tutto nuovo
Ma chi sono questi giovani che ritornano a coltivare la terra con i metodi dei loro avi? Intanto va sgombrato subito il campo da un equivoco: non si tratta di un movimento che si basa su un’idea romantica di un sistema neo-rurale. Né di una posa un po’ “fricchettona” in stile anni Settanta, basata su uno stile di vita da eremita, alternativo e vocato ad una fatica non ripagata come si deve. Tutt’altro.
Qui ci troviamo di fronte ad un movimento del tutto nuovo, di per sé inedito, perché dinamico e in continua evoluzione e che è il frutto di esperienze diverse che provengono e si raccolgono da tutto il territorio nazionale. Dando vita ad una vera e propria mappa, ampiamente tracciabile. E documentabile.
Giovani con un obiettivo in testa: fare rete per stimolare la rinascita di ecosistemi produttivi e rigenerati, che riscoprono il valore della terra nella sua essenza e potenzialità generatrice.
Imprese vere e proprie che non si muovono a caso o “spontaneamente”, ma con freddo e ferreo determinismo e rigore “scientifico” e che al caso non lasciano proprio nulla, anzi: pianificazione dei costi, elasticità mentale, grande capacità comunicativa, attitudine al marketing sono i quattro criteri guida di questi “nuovi contadini” che si muovono all’insegna di uno slogan e di principi di sicuro impatto: “buono, pulito e giustamente redditizio”, come si può leggere anche nel numero di settembre del Gambero Rosso che dedica la cover alla “Rivoluzione nei campi”.
Primo: fare rete
“Il comun denominatore è innanzitutto un approccio all’impresa agricola nuovo – si legge nel servizio – perché teso a conciliare la sostenibilità economica con quella etica e ambientale. E innovativo, anche perché supera le diffidenze e la competizione sterile tra realtà che in fondo mirano tutte allo stesso obiettivo: fare rete, per stimolare la rinascita di ecosistemi produttivi e rigenerati, che riscoprono il senso della comunità e il valore della terra”.
Puntando e scommettendo sulla qualità che può dar da vivere di sicuro “a chi sa avere le idee chiare, e dunque una visione programmatica e programmata dell’impresa agricola” in sé. Considerando la terra come un capitale il cui suolo va continuamente rigenerato e non stressato e sfruttato fino ad esaurimento. Un vero e proprio cambio di paradigma, una Rivoluzione appunto.
Il glossario è ricco di termini e al tempo stesso di azioni: agricoltura biointensiva nell’orizzonte dell’agricoltura naturale, rigenerativa, sinergica, biodinamica, agroecologica, acquaponica, aeroponica e idroponica, etc, etc… secondo sette principi cardine o “comandamenti” che dir si voglia, che si ispirano prima di tutto a considerare piccoli appezzamenti, ovvero poca terra da coltivare, la qual cosa permette di abbattere facilmente e in tempi ragionevoli l’investimento iniziale; che la fertilità del suolo è al tempo stesso un investimento ma anche un capitale, che bisogna usare attrezzi manuali perché “rispettano il suolo, abbattono i costi, sono facili da maneggiare e precisi”; che una pianificazione efficace delle attività nel campo è indispensabile; che riconosce l’importanza delle vendita diretta e a km 0; che si lavora per guadagnare in quanto “la passione e l’impegno devono trasformarsi in un corretto stipendio e non si vive di romanticismo rurale”; infine, niente più segreti da contadini del passato, largo invece ala circolazione delle competenze e delle informazioni e alla condivisione delle stesse sui social network.
Il progetto 'Terra Madre'
Da questo punto di vista il movimento di Slow Food ha fatto scuola e segnato il solco anche attraverso il suo movimento di contadini che si raccolgono intorno al progetto Terra Madre promosso in prima persona da Carlo Petrini, l’attivissimo presidente Slow Food. Da un servizio della versione cartacea di Libero Quotidiano dello scorso 26 ottobre scopriamo invece che di 3.000 euro al mese, netti, è lo stipendio da capo stalla che offrono alcuni grandi allevamenti di bovini del centro nord Italia. “Un lavoro tosto, che richiede quasi sempre una laurea, una sufficiente esperienza alle spalle e la conoscenza delle ultime tecnologie a disposizione di agricoltori e allevatori”, si legge nell’articolo.
“Capita infatti che il capo stalla abbia sotto di sé qualche decina di addetti, in prevalenza mungitori, e alcune migliaia di capi”. E ancora: “D’altronde – seguita l’articolo – l’agroalimentare offre parecchie opportunità di lavoro, anche se resta una vasta area grigia di attività che non applicano fino in fondo i contratti di categoria. Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia: nei primi sei mesi del 2019, solo in Lombardia, sono nate 288 nuove imprese agricole condotte da under 35, come documentano i dati della Camera di Commercio di Milano, Monza e Brianza, Lodi e della Coldiretti. Nelle campagne lombarde sono oltre 3.000 le imprese giovani e crescono dell’1,5% all’anno”.
Mentre Il Foglio del 29 ottobre dedicava una intera pagina alla “Rivoluzione agricola” indicando che i taglia della Ue alla Pac, la Politica agricola comunitaria, “fanno paura, ma potrebbero stimolare l’efficienza del settore” anche perché da “Rapporto sulla competitività dell’agroalimentare italiano” presentato a luglio 2018 dall’Ismea (Istituto di servizi per il mercato) emerge che l’agricoltura esprime di fatto “un valore aggiunto che incide sul Pil per il 2,1 per cento”. In cifre assolute si tratta di 61 miliardi di valore aggiunto, di cui 41 di esportazioni e 1,4 milioni di occupati. In definitiva, un buon investimento. Specie per i più giovani.
E se ci si pensa bene, il lavoro in agricoltura è linfa vitale per gli chef, che dai campi e dal lavoro dei contadini attingono la materia prima per le loro cucine e per preparare i loro piatti gourmet. E il cerchio si chiude. Ciclo biologico, ciclo vitale.