La disputa commerciale tra Usa e Cina dà una lezione all’Europa, facendone emergere la debolezza negoziale. Mentre Pechino e Washington discutono un accordo per scongiurare la guerra dei dazi, il cancelliere tedesco Angela Merkel vola in Cina per parlare con il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang di accesso al mercato e questioni commerciali. “La Germania continua il suo dialogo con la Cina che tratta con i singoli Paesi, e non con l’Ue, anche quando si discute di accordi commerciali”, dice all’Agi Michele Geraci, adjunct professor di finanza presso la New York University di Shanghai.
L’Unione Europea rischia di non avere un potere contrattuale credibile nei confronti di Pechino. “Sebbene le tariffe decise da Pechino e da Bruxelles siano nominalmente uguali per tutti in coerenza con i principi del mercato unico, esse rispondono a politiche commerciali negoziate dai commissari dei 28 membri con la Cina: i dazi effettivi cambiano di Paese in Paese”. Non ha dubbi il professore di Shanghai che ha fatto conoscere la Cina a Matteo Salvini: “Anche all'Italia serve rafforzare le relazioni bilaterali con Pechino; qualcosa si è mosso negli ultimi anni ma bisogna accelerare, altrimenti il nostro Paese rischia di restare schiacciato tra Cina e America”.
Le regole del mercato unico europeo, pensate per consentire a tutti i Paesi membri di avere condizioni e dazi identici sia sul versante dell’import che dell’export, nella pratica creano invece degli squilibri. Cioè? “Mentre i dazi nominali imposti su ciascuna categoria di merci (99 i codici hs) sono uguali, siccome ogni Paese ha una composizione diversa di tipologie merceologica, il risultato è che le tariffe effettivamente applicate sono divergenti”.
Ecco un esempio teorico che serve a illustrare il concetto.
In passato i balzelli che la Cina applicava alle merci importate dall’Ue erano del 60% per i beni di lusso e del 25% per le auto. La Germania esporta auto, l’Italia merci di lusso. Anche a fronte di un trattamento equo, è chiaro che la prima – con un dazio del 25% - avrebbe un vantaggio nell’esportazione verso la Cina nei confronti dell’Italia.
(Chiaramente l’Italia non esporta solo questa tipologia di merci)
La realtà è molto più complessa. C’è una disparità tra i dazi applicati. “Una differenza che nel tempo si evolve in base a una combinazione complessa di due fattori”, continua Geraci. “Il primo è la variazione, in genere al ribasso, dei dazi nominali che Pechino impone sulle singole tipologie di merci che importa dall’Europa; il secondo si riferisce all’evoluzione del mix di prodotti”.
E arriviamo a un paradosso. Negli ultimi dieci anni, nonostante la Cina abbia abbassato i dazi nominali, l’Italia ha subito un aumento dei balzelli effettivi sull’export; invece i prodotti che la Cina esporta verso l‘Italia hanno subito un decremento effettivo.
Il trend dei dazi è in aumento - Grafico.
Il grafico mostra che i dazi effettivi che il sistema Italia subisce quando esporta merci verso la Cina, sono diminuiti dal 1996 al 2006, soprattutto dopo l’ingresso della Repubblica Popolare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (2001). Tuttavia, a partire dal 2009, hanno registrato una tendenza al rialzo. “Oggi sono in media del 9%, più del doppio (4%) dei dazi imposti dall’Italia alle merci provenienti dalla Cina. Si tratta una situazione di disparità che potrebbe anche essere giustificata con la differenza di grado di sviluppo dei due Paesi. A essere meno accettabile è invece la divergenza, con il gap che aumenta nel tempo, come è stato negli ultimi 4 anni”.
Mentre l’Italia recupera posizioni di export nei confronti della Cina (+22,2% nel 2017), il nuovo governo italiano dovrebbe affrettarsi a negoziare con la Cina un trattamento più favorevole, specie per quelle merci che rappresentano la componente maggiore dell’export: macchinari (32%), prodotti chimici (14%), tessile (8,8%), trasporti (8,0%), plastica e rifiuti (4,1%), agroalimentare (2,3%).