Dopo l'approfondimento sugli uragani, questo secondo "long form" di Agi è dedicato al nucleare. L'obiettivo non cambia: in questa serie di articoli cerchiamo di fare chiarezza, in modo semplice e il più esaustivo possibile, sui grandi temi di attualità. Come metodologia di lavoro abbiamo scelto di mettere in campo le competenze che stiamo sperimentando ormai da un anno nei campi del data journalism e del fact-checking. Quello che vi apprestate a leggere è dunque un approfondimento condotto in pool dai nostri giornalisti con i colleghi di Formica Blu (Elisabetta Tola e Marco Boscolo) e di Pagella Politica (Giovanni Zagni e Tommaso Canetta). L'articolo può essere letto dall'inizio alla fine, oppure, andando direttamente alle sezioni di interesse, cliccando sui titoli del sommario che trovate qui sotto. Contenuto realizzato in collaborazione con Eni.
La geopolitica del nucleare
La mappa dei Paesi con l'atomica
Come nacque la bomba atomica
La differenza tra la bomba atomica e la bomba H
Pyongyang, minaccia o bluff?
La geopolitica del nucleare
Quest’anno la lancetta dei minuti del Doomsday Clock, l’Orologio dell’Apocalisse, si è spostata in avanti di altri trenta secondi. Mancano nel 2017 solo due minuti e mezzo alla “mezzanotte”, secondo gli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists, che misurano dal 1947 all’Università di Chicago la distanza da una ipotetica fine del mondo. Numerosi, nei settant’anni dell’Orologio, gli spostamenti avanti e indietro delle lancette sul quadrante a seconda delle tensioni geopolitiche: ma dal '53 al '60 furono più vicine di adesso all’ora dell’Apocalisse (due minuti), sospinte dai test termonucleari delle due superpotenze.
Sono nove (vedi in dettaglio più avanti) oggi gli Stati che possiedono armi nucleari: Usa, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Israele e Repubblica Popolare Democratica di Corea. Secondo l’ultimo Rapporto del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), più del 90% dell’arsenale è detenuto da Russia e Usa, anche se il numero delle loro testate nucleari si è progressivamente ridotto. Per quale motivo? Il primo è per le scelte unilaterali; il secondo è il risultato del Nuovo START, il Trattato sulle misure di ulteriore diminuzione e limitazione delle armi strategiche offensive del 2010. Tuttavia, avverte il Sipri, “il ritmo di questo ridimensionamento è rallentato rispetto a un decennio fa e nessuno dei due paesi ha tagliato in modo sostanziale le forze nucleari strategiche schierate dall’inizio del 2011”.
Meno armi ma sempre più moderne
Le cifre più aggiornate della FAS (Federation of American Scientists) attribuiscono a Russia e Usa il 93% del totale delle armi nucleari: 4.000-4.500 ciascuna. Non si può esprimere profondo ottimismo. Se si guarda agli altri detentori di armi nucleari, proseguono – rileva il Sipri – la modernizzazione e lo sviluppo dei rispettivi arsenali. Sulla stessa linea, la Fas rileva che “il ritmo di riduzione sta rallentando rispetto agli scorsi 25 anni. Francia e Israele hanno scorte relativamente stabili, mentre Cina, Pakistan, India e Corea del Nord stanno incrementando le scorte di armi”. Tutti “continuano a modernizzare le loro residue forze nucleari e sembrano impegnati a mantenere le armi nucleari in un futuro indefinito”.
Secondo un’analisi pubblicata per Mauldin Economics ad aprile scorso, solo Usa e Russia posseggono la “triade” completa per il pieno impiego delle armi possedute: missili con base a terra, missili da sottomarini e ordigni montati sui bombardieri strategici. Non è certo, ma pare presumibile che anche Cina e India dispongano della “triade nucleare”.
Accanto ai nove Stati, ce ne sono altri che hanno lavorato negli anni scorsi per ritagliarsi un ruolo geopolitico in prima persona nel nucleare. Ma alcuni temporaneamente, altri in via definitiva, sembrano avervi rinunciato: è il caso dell’Iran, di alcuni Stati dell’ex impero sovietico (Bielorussia, Kazakistan e Ucraina), del Sudafrica, della Corea del Sud, Taiwan, Argentina e Brasile, dell’Iraq (che al piano disse addio con la Guerra del Golfo) e della Libia (che desistette volontariamente nel 2003, per decisione di Gheddafi). Un piano lo aveva intrapreso la Siria con l’aiuto della Corea del Nord, ma non andò oltre il possesso di uranio arricchito e la costruzione di un reattore, distrutto da Israele con un raid aereo nel 2007.
La potenza “latente” di 31 Stati
Gli analisti di Mauldin Economics, tuttavia, rimarcano la situazione dei Paesi in “latenza nucleare”: Chi sono? Quelli che hanno sviluppato un programma nucleare per usi pacifici, ma che potrebbe essere un giorno convertito alla produzione di armi in presenza di opportune condizioni: capacità tecnico-scientifica, accesso ai materiali, un settore industriale ben sviluppato. Sono 31 gli Stati che ospitano impianti nucleari, di cui cinque quelli per cui l’acquisizione di armi nucleari avrebbe impatti radicali sulle relazioni regionali e con le potenze globali: Iran, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Germania.
Un arsenale nucleare traccia di per sé una “linea rossa” per il Paese detentore, che con quel deterrente inclina eventuali aggressori a muoversi con la cautela commisurata ai rischi.
E’ il caso della Corea del Nord soprattutto dopo gli ultimi test missilistici. Anche se gli Usa non soffrissero una diretta minaccia, la sicurezza dei suoi alleati risulterebbe a repentaglio con una bomba nordcoreana. L’effetto? Analogo a quello accaduto in Europa quando Regno Unito e Francia non si sentirono garantiti a sufficienza dalla protezione americana: si armarono di più. C’è insomma il rischio di una proliferazione nucleare tra gli alleati asiatici degli Stati Uniti.
S’interrogano falangi di analisti sulla reale consistenza della minaccia nucleare di Pyongyang. Un punto comune per molti sembra quello rilevato da Mauldin Economics: la Corea del Nord “è un Paese povero il cui programma nucleare gli ha permesso di aumentare il suo prestigio internazionale e di costringere le superpotenze a un approccio di grande prudenza”. Eppure, la capacità di deterrenza della Corea del Nord sarebbe spazzata via se impiegasse davvero un’arma nucleare: “Sarebbe un suicidio sicuro”. Ma non bisogna dimenticare che il regime ha resistito per decenni alla Guerra Fredda poi alla caduta dell’Unione Sovietica, proprio in virtù della prudenza di calcolo che molti non attribuiscono all’apparente “irrazionalità” dell’attuale leader supremo Kim Jong-un. Fatto sta che – rileva un’analisi ancora attuale dello studioso Gareth Evans su “Asia and the Pacific Policy Studies” – l’esclusione di un “suicidio” non impedisce a Kim di rendere “volatile” la situazione né pare remota l’ipotesi che qualche grave errore di calcolo generi “uno scontro su vasta scala”.
Le minacce della strategia “asimmetrica”
Consensi riscuote la posizione del politologo del Mit, Vipin Narang, che ha svecchiato la teoria della “mutua sicura distruzione” applicata alle superpotenze nucleari dalla Guerra Fredda ed è oggi piuttosto inadeguata. Secondo Narang, un tempo Pyongyang si affidava alla protezione nucleare della Cina, ma da quando se ne è distanziata ha intrapreso la “strategia di escalation asimmetrica”, per cui attualmente ci troviamo “in una fase molto instabile”.
La posizione nordcoreana è diversa da quella indiana e cinese, cioè – osserva Narang – del nucleare come dissuasore classico quasi più politico che bellico. La strategia della “escalation asimmetrica” configura invece una minaccia credibile di prima risposta nucleare qualora un Paese subisca attacchi convenzionali. Non se l’è inventata Kim: l'“escalation asimmetrica” fu la posizione della Francia negli anni della Guerra Fredda ed è ancora quella del Pakistan nei confronti dell’India.
Comporta maggiori pericoli? Sì, perché se bersaglio di attacchi convenzionali, i Paesi che assumono tale posizione generalmente delegano l’autorità di una risposta nucleare ai capi militari. E i protocolli di sicurezza possono escludere la consultazione con altre cariche del governo e dell’esercito prima dell’azione.
L’atomica potenza di una bufala
E’ intanto emerso un nuovo rischio nucleare negli ultimi anni. Non è connesso agli Stati, ma al terrorismo. Più che il furto o l’assemblaggio di un’arma, lo scenario da monitorare riguarda la manipolazione per via informatica dei sistemi di early-warning: è la via più conveniente per un gruppo terrorista e ha già mostrato la sua fattibilità. Le dedica un paragrafo il Rapporto “Understanding Nuclear Weapon Risk” (2017) dell’Unidir (United Nations Institute for Disarmament Research) di Ginevra. Già nel 2009 uno studio commissionato dall’Istituto dimostrò che in circostanze favorevoli è possibile penetrare questi sistemi per lanciare un attacco. Si tratta di “un’alternativa più semplice per i gruppi terroristi rispetto alla fabbricazione o all’acquisizione di un’arma nucleare o alle stesse bombe sporche”.
C’è infine una strada ancora più semplice per ingenerare pericolose destabilizzazioni: “Potrebbero essere parimenti sfruttate la manipolazione dei social media e la diffusione di false notizie”, nota il Rapporto Unidir. Accadde a dicembre 2016, quando una bufala pubblicata da AWD News, secondo cui Israele aveva minacciato l’attacco nucleare al Pakistan se interferiva nelle vicende siriane, provocò una risposta su Twitter del ministro della Difesa di Islamabad che replicò con reciproca minaccia nucleare. Ci fu per fortuna una reazione pronta del ministro della Difesa israeliano, il quale smentì la notizia come “totalmente falsa”. Un episodio servito da lezione sulle “potenzialmente gravi conseguenze di una deliberata disinformazione o manipolazione dell’informazione, specialmente in una crisi e in circostanze in cui le parti non abbiano affidabili canali di comunicazione, abbiano un tempo assai breve di azione sulla base di una informazione del genere, o laddove i comandanti locali siano stati delegati dall’autorità a lanciare armi nucleari di teatro o basate su sistemi sottomarini”. “Scenari del genere – avverte l’Unidir – sono rilevanti soprattutto nel Sud dell’Asia esposto a conflitto”.
La mappa dei Paesi con l’atomica
Dall’entrata in vigore del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (NPT) nel 1970, i paesi che ufficialmente possiedono armi atomiche sono cinque: Stati Uniti, Russia (che ha ereditato e gestisce l’arsenale della ex Unione Sovietica), Gran Bretagna, Francia e Cina. Ma ci sono altri tre paesi che negli anni successivi, pur non facendo parte del NPT, sono entrati nel cosiddetto “club del nucleare”, e sono India, Pakistan e Corea del Nord. Quest’ultima per la verità faceva parte del NPT fino al 2003, quando ha deciso di uscirne e di avviare un proprio programma di sviluppo di armi nucleari. Inoltre la Federation of American Scientists, e sostanzialmente tutte le istituzioni coinvolte nel monitoraggio degli arsenali nucleari mondiali, danno per certa la presenza di armi atomiche in Israele (dato che il governo israeliano non ha mai confermato preferendo mantenere sempre una posizione ambigua al riguardo). Il totale, insomma, è di nove.
Secondo il SIPRI, uno dei think tank indipendenti più rispettati a livello internazionale, con sedi a Stoccolma e Pechino, che da metà anni ‘60 svolge ricerche e fornisce dati e analisi a tutti i governi e istituzioni sul tema della pace, dei conflitti e degli armamenti, oggi Israele possederebbe circa 80 testate nucleari.
Tutta particolare è la storia del Sudafrica, che tra il 1974 e il 1990 ha investito nello sviluppo di un proprio arsenale nucleare, per poi smantellarlo completamente, aderire al NPT nel 1991 e impegnarsi da quel momento contro la proliferazione degli armamenti nucleari e in favore di un uso pacifico del nucleare civile. Poi ci sono paesi come l’Italia, il Belgio, la Germania, l’Olanda e la Turchia, che essendo parte della NATO potrebbero avere sul proprio territorio testate nucleari.
La mappa dei paesi che hanno la bomba nucleare
A luglio 2017, sempre secondo il Bollettino degli scienziati atomici della FAS, il censimento delle testate nucleari globali ammontava a quasi 15 mila, di cui 9400 parte di arsenali militari attivi e addirittura più di 5000 di queste già schierate, montate su missili e pronte all’uso. Va sottolineato come tutti questi numeri siano dati da studi e analisi di diversi enti di ricerca internazionale, ma non per tutti vi siano conferme ufficiali da parte dei diversi paesi. Quasi sempre, infatti, il numero di ordigni nucleari è segreto di Stato.
Un dato interessante riguarda l’andamento del numero di testate nucleari nel tempo. Dalla seconda guerra mondiale, infatti, è iniziata una vera e propria corsa agli armamenti, che ha visto in un primo tempo gli Stati Uniti dotarsi del più importante arsenale nucleare. Negli anni successivi, però, l’allora Unione Sovietica ha recuperato e anzi sorpassato gli Usa come numero di armi nucleari. Oggi la Russia è il paese che ha il primato al mondo.
Nel grafico sotto vediamo l’andamento del numero di armi nei diversi paesi e (in rosso) l’andamento globale, sempre secondo i dati del Bollettino degli scienziati atomici. Per la scarsità di dati certi, la Corea del Nord è stata lasciata fuori. Gli scienziati stimano che il paese asiatico abbia prodotto materiale sufficiente per la costruzione di almeno una ventina di testate nucleari, ma non si sa se queste armi siano effettivamente pronte all’utilizzo né dove siano i depositi.
Una prima (piccola) flessione nella produzione di armi nucleari globali si rileva attorno al 1970, anno dell’entrata in vigore del Trattato di non proliferazione NPT. Una seconda importante riduzione si registra dopo il 1986, anno in cui, a ottobre, il presidente americano Ronald Reagan e il neo segretario del PCUS sovietico Mikhail Gorbachev si incontrarono a Reykjavík per avviare un processo di riduzione degli arsenali nucleari europei e globali. L’accordo, denominato Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty (INF), fu raggiunto l’anno successivo e firmato a Washington nel dicembre del 1987. La riduzione in corso negli ultimi anni non corrisponde però a una diminuita minaccia nucleare, perché le armi disponibili sono oggi assai più potenti di quelle dei primi decenni. Quindi il rischio non si può calcolare solo in numero di testate, ma semmai in potenza nucleare a disposizione di ciascun paese.
Come nacque la bomba atomica
La costruzione della prima bomba atomica, nell’immaginario collettivo, è l’impresa di alcuni scienziati nel deserto del Nevada, isolati dal mondo e circondati dalla segretezza, impegnati in una corsa contro il tempo per battere i nazisti e arrivare prima di loro alla costruzione dell’arma più distruttiva mai costruita.
In realtà, il Progetto Manhattan fu un enorme sforzo dell’apparato industriale e militare americano, che impiegò centinaia di migliaia di persone in diversi siti nel Nord America e fu uno dei progetti di ricerca e sviluppo più costosi della sua epoca. La stima più diffusa parla di circa 2 miliardi di dollari dell’epoca, circa 30 miliardi di dollari attuali.
La Germania andò vicina alla bomba?
Non fu neppure una vera corsa contro il tempo; non con la Germania nazista, per lo meno. Il progetto tedesco era guidato da Werner Heisenberg, uno dei padri della fisica quantistica, premio Nobel e tra i più celebri fisici del tempo. Ma i tedeschi non costruirono mai non solo una bomba, ma neppure un reattore. I motivi sono numerosi: dal punto di vista tecnico, ad esempio, imboccarono una strada di sviluppo poco promettente, che passava per la produzione di grandi quantità di acqua pesante.
Nell’acqua pesante, l’idrogeno è presente soprattutto in un isotopo particolare, il deuterio, che ha un nucleo formato da un neutrone e un protone. Nell’isotopo più comune in natura, invece, l’idrogeno ha un nucleo formato da un protone, senza neutroni.
Il programma ricevette quindi un colpo praticamente mortale quando, nel corso del 1943, una serie di azioni di sabotaggio misero fuori uso la centrale idroelettrica di Vemork: l’impianto di produzione dell’acqua pesante nella Norvegia occupata, che avrebbe dovuto fornire quella rara materia prima al progetto tedesco.
Gli Alleati, ad ogni modo, ebbero la certezza di aver corso da soli soltanto alla fine della guerra, quando i principali scienziati del programma nucleare tedesco vennero rinchiusi in una casa nei pressi di Cambridge chiamata Farm Hall.
Le microspie nella struttura rivelarono che i tedeschi rimasero per lo più stupiti e increduli alla notizia dello sgancio della bomba su Hiroshima. Il loro programma era, con ogni evidenza, a parecchi anni dall’essere completato.
Dopo la guerra, si speculò molto anche sulla possibilità che Heisenberg avesse lavorato per sabotare dall’interno gli sforzi tedeschi - una ricostruzione resa celebre da una pièce teatrale del 1998, "Copenhagen" di Michael Frayn, e sostenuta dopo la guerra dallo stesso Heisenberg - ma gli storici sono piuttosto convinti del fatto che il regime nazista non entrò in possesso della bomba per alcune scelte di sviluppo sbagliate e per la mancanza di risorse industriali così grandi come quelle statunitensi.
Fissioni e frigoriferi
Ironia della sorte, la scoperta che fece comprendere alla comunità scientifica la possibilità di costruire una bomba atomica fu opera di scienziati tedeschi. Negli ultimi giorni del 1938, infatti, i chimici Otto Hahn e Fritz Strassman condussero un esperimento che scoprì la fissione dell’uranio, ovvero la divisione di un atomo di quell’elemento pesante, bombardato da neutroni, in alcuni più leggeri, con la contemporanea liberazione di energia.
Il fisico danese Niels Bohr portò la notizia negli Stati Uniti alla Quinta conferenza di fisica teorica di Washington, apertasi il 26 gennaio 1936, ancora prima che Lise Meitner - a lungo collaboratrice di Hahn - desse la spiegazione teorica più corretta dell’esperimento.
La comunità dei fisici colse a poco a poco la portata storica della scoperta: la fissione di un atomo di uranio produce infatti altri tre neutroni, che a loro volta possono essere usati per colpire altri atomi di uranio. Si ottiene così una reazione a catena: che può essere usata in un reattore, per produrre energia in modo controllato, ma anche in una bomba, liberando in modo istantaneo e incontrollato energia in quantità fino ad allora sconosciute per processi causati dall’uomo.
La storia della costruzione della bomba atomica è popolata di personaggi straordinari e circostanze particolarissime. Chi spinse di più per un impegno americano, in quelle fasi iniziali, fu l’emigrato ungherese Leo Szilard, che convinse un altro esule della vecchia Europa, Albert Einstein, a firmare una lettera per il presidente statunitense Franklin D. Roosevelt. I due si conoscevano da tempo e avevano fatto qualche soldo, anni prima, rivendendo il brevetto per il progetto di... un frigorifero.
Nella lettera, scritta nell’agosto del 1939 e letta dal presidente solo a ottobre - nel frattempo era avvenuta l’invasione nazista della Polonia, che causò un comprensibile ritardo - Szilard ed Einstein avvertivano Roosevelt del pericolo che i tedeschi arrivassero prima alla bomba. La mossa mise in moto l’interesse delle autorità americane.
La nascita della fisica moderna
Alla fine dell’Ottocento, la fisica era un campo piuttosto secondario e dimenticato della scienza. Di lì a pochi decenni, attraverso un periodo straordinario ed esaltante di scoperte, i fisici - con la collaborazione dei chimici, dei matematici e degli ingegneri - sarebbero stati in grado di arrivare alla bomba che affrettò in modo decisivo la capitolazione del Giappone e la fine della Seconda guerra mondiale.
Aprì la strada la scoperta della radioattività naturale da parte di Henri Becquerel, nel febbraio 1896, grazie a una serie di lastre fotografiche cosparse di un composto di uranio lasciate in un cassetto perché quel giorno a Parigi il cielo era coperto.
Ma allora - poco più di cento anni fa - non si conosceva ancora nulla dell’atomo: né la sua struttura né le sue proprietà fondamentali né tantomeno la possibilità che potesse essere diviso. Rispetto alla concezione degli antichi, che consideravano gli atomi solo come le unità minime, fondamentali e indivisibili della materia, erano stati fatti pochi passi in avanti.
Un gruppo di scienziati in Europa e negli Stati Uniti, a poco a poco, arrivarono a capire e a formulare modelli assai precisi. Nel 1913, ad esempio, dopo una serie di esperimenti compiuti dal fisico sperimentale Ernest Rutherford - brillante e precoce figlio di un agricoltore della Nuova Zelanda - e di elaborazioni teoriche del danese Niels Bohr - discendente di una ricca famiglia danese - si arrivò ad elaborare il cosiddetto “modello di Rutherford-Bohr”, che ancora oggi è su tutti i libri di scuola e vede l’atomo come un piccolo centro carico positivamente (il nucleo) intorno cui ruotano in cerchi concentrici le cariche negative (gli elettroni).
Il successivo ventennio di teorie e tentativi, che costruirono a poco a poco la fisica moderna, ebbe molti protagonisti, tra cui Enrico Fermi e il suo gruppo di ricerca (i “ragazzi di via Panisperna”, dalla sede dell’Istituto di Fisica dell’università di Roma) che nel 1934 osservò come fosse possibile indurre la radioattività in modo artificiale, bombardando l’uranio con neutroni.
In tutti questi anni, l’idea che dall’atomo si potesse ottenere un enorme quantitativo di energia rimase sempre nell’aria, affiorando qua e là nel pensiero degli scienziati e dei più visionari. Una prova di questo è il romanzo di H.G. Wells "La liberazione del mondo" (1914), che immaginava appunto un futuro in cui fossero disponibili le armi atomiche.
Il progetto Manhattan
La costruzione della bomba doveva passare dalla soluzione di un’enorme quantità di problemi non solo di tipo fisico, ma anche pratico e ingegneristico. La teorica possibilità di dividere l’atomo, ormai chiara a tutta la comunità scientifica alla fine del 1938, lasciava aperti molti altri interrogativi: era possibile mantenere una reazione a catena controllata? Come disegnare, concretamente, un’eventuale bomba? Come ottenere una quantità sufficiente di materiale fissile, la materia prima dell’ordigno?
Per rispondere a queste domande, il governo americano stanziò inizialmente poche risorse. Il progetto britannico, denominato in codice Tube Alloys (“leghe per tubi”) fu per qualche tempo più avanzato. Il bombardamento giapponese di Pearl Harbor e l’entrata in guerra degli USA convinsero gli alti gradi dell’amministrazione e dell’esercito che le ricerche portate avanti nel campo della fisica dovevano ricevere una decisa accelerazione e un obiettivo chiaro: dimostrare se e come si potesse costruire la bomba.
Così, nel settembre 1942 fu nominato a capo del progetto il generale dell’esercito Leslie Groves, un membro del Genio militare energico e inflessibile. Avrebbe avuto bisogno di entrambe le qualità: il programma crebbe fino a includere una trentina di siti in tutti gli Stati Uniti, molti costruiti dal nulla, e a impiegare oltre centomila persone.
Qualche settimana dopo la nomina di Groves, il 2 dicembre 1942, Enrico Fermi guidò l’esperimento in cui si ottenne per la prima volta una reazione a catena controllata: la “pila di Fermi” venne costruita sotto le tribune di uno stadio sportivo abbandonato dell’università di Chicago.
Per coordinare meglio il loro lavoro, gli scienziati non potevano più restare nelle università. All’inizio del 1943 centinaia di persone - gli scienziati e le loro famiglie, tecnici e operai - furono trasferiti in una località segreta del New Mexico, intorno a una scuola privata per ragazzi acquistata per l’occasione dell’esercito e rinominata Laboratorio nazionale di Los Alamos.
Uno ad uno, tutti i problemi tecnici e teorici rimasti per lo sviluppo della bomba vennero risolti da un eccezionale gruppo di scienziati guidato da Julius Robert Oppenheimer. Figura grandiosa e tragica, coltissimo e membro di una ricca famiglia ebraica newyorkese, dopo la guerra Oppenheimer venne riconosciuto come “il padre della bomba atomica” e sentì sempre il peso morale delle sue azioni e delle ricerche da lui guidate.
Per la costruzione della bomba, si decise di sviluppare due progetti differenti: nel primo, dal funzionamento simile a una pistola, un “proiettile” di uranio veniva sparato contro un bersaglio dello stesso materiale. Per produrre l’uranio arricchito necessario - in natura l’uranio è soprattutto nella forma dell’isotopo U-238: per la bomba bisognava aumentare moltissimo la percentuale dell’altro isotopo U-235 - venne costruito un enorme impianto a Oak Ridge, nel Tennessee.
La prima bomba prodotta con questo design, considerato così sicuro da non aver neppure bisogno di un test di prova, fu Little Boy, quella sganciata sulla città giapponese di Hiroshima il 6 agosto 1945.
La seconda, invece, era molto più raffinata e usava un meccanismo “ad implosione”: un nucleo di plutonio - prodotto nel reattore di Hanford, nello stato di Washington - veniva compresso da esplosivo ad alto potenziale, in modo da raggiungere la massa critica e scatenare la reazione a catena incontrollata. Fat Boy, la bomba di Nagasaki, era di questo secondo tipo.
E una bomba ad implosione fu anche quella testata nel deserto del New Mexico all’alba del 16 luglio 1945, nell’esperimento che Oppenheimer aveva chiamato “Trinity”. Quando l’esplosione si rivelò un successo e nel cielo ancora scuro si creò l’enorme palla di fuoco della detonazione, Oppenheimer pensò a due versi del poema indù Bhagavadgita: "Se nel cielo cominciasse a brillare all’improvviso lo splendore di mille soli…" e, più cupamente, una frase pronunciata nell’opera da Vishnu: "Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi".
Il racconto di uno che c’era
“Il progetto Manhattan finì col diventare una grande impresa, pur tuttavia piccola rispetto per esempio all’invio dell’uomo sulla Luna o a altre gesta post belliche. In cifra tonda costò tre miliardi di dollari di allora. […] L’osservatore obiettivo può essere sorpreso che sia stato possibile raggiungere il risultato finale nel tempo stabilito. Le ragioni sono varie. La prima, secondo me, è che i tempi erano maturi tecnicamente; le scoperte degli anni precedenti avevano creato una situazione tecnico-scientifica favorevole. La seconda è Hitler: l’odio per lui era tale che chiunque e dico chiunque era disposto a lasciare le proprie occupazioni e a lavorare giorno e notte per porre fine alle sue malefatte. […] Il laboratorio e la cittadina di Los Alamos come erano durante la guerra sono ormai spariti sostituiti da una città più o meno convenzionale in cui gli architetti governativi si sono sforzati, con successo, di distruggere tutte le bellezze naturali possibili, così come i costruttori di molte altre città. Vive solo come memoria di un’epoca unica, romantica e giovanile, per molti dei partecipanti. […] Il compito originale di Los Alamos si esaurì con la detonazione della prima bomba ad Alamogordo all’alba del 16 luglio 1945. Nel dopoguerra è rimasto come uno dei grandi laboratori nazionali degli USA con compiti assegnati, inclusi quelli militari. L’uso bellico della bomba contro il Giappone fu deciso, in ultima analisi, dal Presidente Truman, il solo che come capo delle forze armate secondo la costituzione americana, ne avesse l’autorità.Truman si consultò con vari consiglieri, inclusi taluni scientifici, e raggiunse le sue conclusioni con piena consapevolezza delle aspettative e delle alternative che aveva”. Il racconto in prima persona è di Emilio Segrè, premio Nobel per la Fisica, che partecipò direttamente alla preparazione della bomba atomica nel progetto Manhattan. (Da E. Segrè, “Personaggi e scoperte della fisica contemporanea”, Mondadori, 1996).
La differenza tra bomba atomica e bomba H
La bomba A
Little Boy e Fat Man, le prime due bombe lanciate rispettivamente su Hiroshima, il 6 agosto 1945, e Nagasaki, tre giorni dopo, erano bombe atomiche a fissione, simili come funzionamento ma con due diversi meccanismi di attivazione.
Le bombe atomiche contengono un nocciolo di materiale radioattivo (uranio arricchito 235 in quelle simili a Little Boy o plutonio 239 nelle bombe tipo Fat Man) rivestito da un guscio di metallo.
La detonazione delle bombe a uranio avviene con un meccanismo a blocchi separati anche detto ‘a proiettile’ (gun-triggered), dove il nocciolo di uranio è suddiviso in più masse, di solito due, per aumentarne la stabilità. Grazie a un innesco con esplosivo normale, le masse di uranio vengono scagliate l’una contro l’altra. L’urto genera una massa maggiore detta supercritica di uranio, altamente instabile, e contemporaneamente attiva l’iniziatore, una sorgente di neutroni posizionata nel dispositivo. L’iniziatore avvia il bombardamento dell’uranio con un numero molto alto di neutroni innescando la reazione a catena che libera l’energia. Le bombe tipo Little Boy sono diventate rapidamente obsolete soprattutto perché l’uranio è altamente instabile.
Le bombe atomiche a implosione, come Fat Man, hanno un nocciolo, una sfera cava, di plutonio 239 rivestito da vari strati di metalli, da esplosivo tradizionale e da detonatori. L’iniziatore, la sorgente di neutroni, è posizionato al centro della sfera. Quando i detonatori esterni esplodono, grazie alle cariche di esplosivo, l’onda d’urto generata comprime il plutonio all’interno aumentandone la densità e attivando l’iniziatore che innesca la reazione nucleare. Le bombe al plutonio, anche se più complesse da mettere a punto, sono considerate più efficienti e sono state migliorate e prodotte anche negli anni successivi.
La bomba H
La bomba H o bomba all’idrogeno, è sostanzialmente un’evoluzione delle bombe a fissione. Funziona con una reazione a fusione termonucleare, molto simile a quella che avviene nelle stelle, ad esempio all’interno del nostro Sole. Il meccanismo si basa su una catena di eventi esplosivi, ciascuno dei quali funge da innesco per quello successivo. Prima viene avviata una esplosione a fissione simile a quella della bomba a implosione. Questa esplosione innesca le reazioni di fusione nucleare, molto più violente, che generano temperature elevatissime e pressioni tali da trasformare l’idrogeno contenuto in un serbatoio interno, in elio, proprio come avviene nel Sole. Si tratta quindi di un processo esplosivo a due stadi. Se una bomba atomica tradizionale ha una potenza di circa 15-20 kilotoni, quella H può arrivare a una potenza di 11 megatoni, ben 800 volte più di quella di Little Boy quando fu sganciato su Hiroshima.
Pyongyang, minaccia o bluff?
Dal punto di vista diplomatico, ci sono molti motivi per cui il mondo dovrebbe dormire sonni tranquilli. Come abbiamo già visto, è probabile che a Pyongyang non convenga usare davvero l’arma nucleare: gli basta dire di possederla, e l’ingresso nel “club nucleare” garantisce da solo un grande potere di contrattazione.
Ma come stanno le cose, dal punto di vista militare? Per prima cosa, la Corea del Nord è riuscita effettivamente a fare in pochi mesi passi da gigante nel suo programma. In primo luogo, in campo missilistico: il regime di Kim Jong-un ha già svolto di gran lunga più test rispetto a quanti ne fecero i suoi predecessori messi insieme. Considerando solo gli ultimi mesi, ben ventun missili sono stati lanciati in 14 test.
Negli ultimi due anni circa, poi, Pyongyang ha aggiunto due nuovi modelli al suo arsenale, come il missile balistico intercontinentale Hwasong-14. In grado di spingersi fino a migliaia di metri di quota, e a colpire ad oltre 5.500 chilometri di distanza, i missili balistici intercontinentali o ICBM sono l’unico strumento militare che la Corea del Nord ha a disposizione per lanciare un attacco distruttivo contro Giappone o Stati Uniti con qualche probabilità di successo.
Testato due volte a luglio, il Hwasong-14 è il primo modello nordcoreano con le potenzialità per superare il Pacifico e arrivare sulla costa occidentale degli Stati Uniti.
Gli Usa obiettivo vicino o già raggiunto
Come abbia fatto la Corea del Nord a fare progressi così grandi e in così poco tempo non è del tutto chiaro. Uno studio recente dell’International Institute for Strategic Studies (IISS) ha posto l’attenzione su potenti motori che arriverebbero da una fabbrica ucraina, ex fornitrice per i grandi ICBM sovietici. Dal complesso dell’azienda statale Yuzhmash di Dnipro, in Ucraina orientale, il know-how balistico sarebbe arrivato in qualche modo nella penisola coreana.
Gli esperti non sono ancora concordi sul fatto che la Corea del Nord possa, oggi, colpire davvero gli Stati Uniti continentali (cioè i 49 stati tra il Canada e il Messico). Ma le agenzie di intelligence americane pensano che comunque sia un traguardo vicino, se non già raggiunto.
Ci sono infatti due scogli tecnici da superare, e che non è ancora certo che il regime nordcoreano abbia superato: il primo è che, se è relativamente facile mandare un missile in orbita, è molto più difficile riuscire a far rientrare la testata - la parte a forma di proiettile dove si trova la bomba - facendola resistere al grandissimo calore che si sviluppa al rientro. Le prove recenti servono probabilmente a superare questo e altri problemi tecnici, che secondo gli analisti potrebbero essere a pochi mesi dalla soluzione.
La seconda cosa da fare è costruire una bomba che stia nella testata del missile, il cosiddetto processo di “miniaturizzazione”. A marzo 2016 è stata diffusa una foto che, secondo il regime, mostra la prima bomba atomica in grado di stare in una testata; il 2 settembre 2017, nuove immagini in cui ci sarebbe invece una bomba H adeguata agli ICBM.
Una potenza tra 100 e 250 kilotoni
Non è possibile stabilire se si tratti di ordigni veri o di scatole vuote né se siano le stesse bombe detonate nei test nucleari delle ultime settimane.
Nel test più recente, ad esempio, condotto il 3 settembre, le onde sismiche prodotte hanno fatto stimare una potenza dell’ordigno esploso intorno ai 100 kilotoni (ma stime più recenti dell’ente norvegese Norsar arrivano ai 250 kilotoni): tra cinque e dieci volte più rispetto a ciascuno dei precedenti test nucleari nordcoreani, cominciati nel 2006. Soprattutto, è una potenza compatibile con una bomba H, a differenza dei precedenti.
Non è possibile avere molte più certezze di queste, anche se il comandante dell’U.S. Strategic Command - l’ente militare responsabile dell’arsenale atomico americano - ha dichiarato di recente di ritenere la Corea del Nord in grado di costruire la bomba all’idrogeno.
Infine, c’è la questione della precisione: al momento è molto difficile che la Corea del Nord abbia la capacità di colpire bersagli molto definiti, dato che i primi lanci di ICBM funzionanti risalgono a pochi mesi fa. Ma la Corea del Nord potrebbe mirare a un bersaglio molto grosso, come ad esempio una città. In quel caso, le probabilità di un attacco di successo salirebbero molto.