"Friends of the Earth avverte che il mondo ha perso tempo prezioso nella corsa contro il cambiamento climatico”. “Il Segretario generale dell’ONU esprime disappunto per l’esito inconcludente della conferenza sul cambiamento climatico”. “Il sud critica il nord per non aver mantenuto gli impegni sul clima”. “Target bassi, obbiettivi ridotti, l’incontro si è rivelato un fallimento”. “Il testo è passato da debole ad ancor più debole a debolissimo, e di fatto è estremamente debole”. “Anche raggiungendo tutti gli obbiettivi, non arriveremo dove abbiamo bisogno di arrivare”. Reazioni a Glasgow 2021? Pensiamoci bene: quelli sopra sono i titoli a commento dei vertici sul clima di Buenos Aires nel 1998, dell’Aja nel 2000, di Bali nel 2005, di Copenaghen nel 2009, di Lima nel 2014 e di Parigi nel 2015. I titoli su Glasgow riecheggiano sensazioni analoghe. “Non è un segreto che la COP26 sia un fallimento”, ha commentato l’attivista Greta Thunberg, aggiungendo che “dovrebbe essere ovvio che non possiamo risolvere la crisi climatica... non sono state che due settimane di celebrazione del business e di bla bla bla, come al solito”.
Il bene ultimo collettivo
Il paradosso è esasperante: se siamo tutti d’accordo sulla necessità di fare qualcosa di grande, e di farlo presto, per mantenere vivibile il nostro pianeta, perché non riusciamo a superare gli ovvi ostacoli che incontriamo? Nonostante gli impegni assunti, virtualmente da tutte le nazioni, fin dal primo summit di Rio de Janeiro nel 1992, le emissioni di carbonio sono aumentate del 60 percento. Dei ventisei vertici su clima, solo pochi hanno visto progressi importanti. Il Protocollo di Kyoto del 2005, per esempio, ha fissato obiettivi di taglio delle emissioni per i paesi più ricchi, ma non ne ha dato alcuno ai paesi meno sviluppati, tra cui, al tempo, figurava la Cina. Il vertice di Parigi del 2015 ha introdotto target specifici pensati per limitare l’aumento della temperatura media del pianeta a un massimo di 1,5 gradi centigradi. Ma si trattava di obiettivi su base volontaria, e non hanno funzionato.
Alla luce di tutto ciò, le aspettative su Glasgow erano modeste. Eppure, i tre sviluppi pratici di segno positivo che hanno preceduto il vertice sembravano dare spazio alla speranza: primo, la promessa del governo statunitense di raddoppiare il budget per il cambiamento climatico portandolo a 11,5 miliardi di dollari, mossa già approvata dal Congresso; secondo, l’annuncio dell’impegno cinese a fermare la costruzione di centrali elettriche a carbone all’estero; terzo, la promessa di oltre 100 paesi di ridurre entro il 2030 le emissioni di metano del 30 percento rispetto al 2020.
Anche così, il Segretario generale delle Nazioni Unite ha definito il documento finale firmato a Glasgow “un passo importante ma non sufficiente, che rispecchia gli interessi, le contraddizioni e lo stato della volontà politica del mondo di oggi”.
Perché? Perché la stabilità del clima è il bene ultimo collettivo. E assicurare l’adeguata disponibilità di un bene pubblico a livello mondiale è un problema perverso, un problema che resiste testardamente a ogni soluzione, in virtù della sua inerente complessità e delle sue caratteristiche. Di fatto, la lotta al cambiamento climatico potrebbe essere il problema più perverso che l’umanità abbia mai dovuto affrontare.
Chi pagherà il conto?
Il segretario al Tesoro degli Stati Uniti Janet L. Yellen ha dichiarato che “il prezzo da pagare per affrontare il cambiamento climatico è dell’ordine di 100 mila milioni di dollari almeno”, e ha aggiunto che un investimento così titanico necessita sia della componente pubblica sia di quella privata. In realtà, il settore pubblico si mostra riluttante in proposito, ma i suoi problemi non sono niente in confronto alla sfida di mobilitare gli investitori privati.
Nonostante i molti tentativi, sono poche le aziende che hanno trovato modo di trarre profitto dagli investimenti volti a frenare l’aumento della temperatura globale. Sono investimenti che andrebbero a beneficio di tutti i membri della società e, in caso di successo, a nessuno si potrebbe impedire di goderne i frutti, tanto più che la stabilità climatica non diminuisce all’aumentare dei soggetti che ne beneficiano. In altre parole, la stabilità climatica mondiale è il bene pubblico per eccellenza.
Gli economisti sanno da tempo che a provvedere ai beni pubblici sono principalmente i governi, perché in genere non è possibile per le imprese trarre profitto da beni il cui godimento va in egual misura a chi paga come a chi non paga per usufruirne: è il famoso problema del free rider. Il segretario Yellen ha sicuramente ragione nell’affermare che il coinvolgimento del settore privato è un must se si vuole risolvere il problema, ma siamo ancora lontani dal dare al capitale privato una buona ragione per investire nella ricerca di soluzioni. Purtroppo, se un modo c’è di trasformare un progetto di controllo delle inondazioni in Bangladesh in una proposta redditizia per il settore privato, ancora non lo abbiamo scoperto.
Ne consegue un crescente squilibrio tra l’offerta e la domanda dei beni pubblici globali necessari a contrastare i cambiamenti climatici, un divario che ogni anno miete sempre più vittime, falciate da eventi meteorologici estremi. Finora, le strategie economiche tradizionali non sono state in grado di risolvere il dilemma. Nonostante i modesti progressi compiuti con misure quali i crediti di carbonio e le tasse sull’inquinamento, il coinvolgimento del settore privato è rimasto indietro.
Gli economisti definiscono questo fenomeno “la tragedia dei beni comuni”: è la tendenza a sfruttare eccessivamente i beni non regolamentati di cui non è chiara la proprietà, come gli stock ittici internazionali, le terre comuni e l’aria pulita. Non che serva la moderna teoria economica per capirlo: già 2.300 anni fa Aristotele scriveva che “di ciò che è comune a molti ci si prende molta meno cura”.
La difficile opera di convincimento dei paesi “ricchi”
A peggiorare le cose vi è che molti dei progetti che andrebbero a sproporzionato vantaggio dei paesi oggi meno sviluppati dovrebbero essere finanziati dai contribuenti dei paesi più ricchi. È difficile convincere i contribuenti europei e statunitensi ad aprire il portafoglio per finanziare investimenti massicci contro la siccità in Botswana, la scomparsa dei ghiacciai in Asia centrale, la deforestazione in Etiopia e nella Repubblica Democratica del Congo, le inondazioni costiere in Africa e in America Latina, per quanto questi problemi siano stati causati proprio dalla produzione e dal consumo di energia di questi contribuenti. Sono limitati i finanziamenti che vanno ai progetti di mitigazione volti ad attenuare l’impatto dei danni già prodotti, perché spesso si tratta di progetti almeno in parte mutuamente concorrenti ed escludibili. Ma non basta.
I paesi più ricchi dovranno agire in modo coordinato e deciso per poter procedere a investimenti che vadano a beneficio dell’intero pianeta e non solo dei loro contribuenti; di fatto, dovranno utilizzare il denaro dei loro contribuenti per finanziare beni pubblici che vadano a beneficio di tutta la popolazione mondiale.
La strategia centrale per la mitigazione dei cambiamenti climatici, cioè il contenimento delle emissioni di CO2, necessita dell’investimento in beni pubblici più grande della storia. E sarà difficile non solo per la tragedia dei beni comuni, ma anche per la crescente polarizzazione geopolitica, che impedisce di dare debita e imparziale considerazione ai progetti globali di mitigazione e adattamento, in tutto il mondo.
Sebbene la strada da percorrere sia tutt’altro che chiara, c’è motivo di cauto ottimismo nella lotta contro il cambiamento climatico. Le maggiori società del settore oil & gas stanno già lavorando con impegno alla transizione energetica, con iniziative di cattura e stoccaggio del carbonio, programmi per le energie rinnovabili e progetti di generazione a idrogeno, in tutto il pianeta. I governi e le istituzioni multilaterali quali la World Bank stanno sviluppando strumenti finanziari dedicati all’adattamento ai cambiamenti climatici, come i green bond.
Aumenta lo slancio e va nella giusta direzione. Serviranno sforzi di mitigazione e adattamento continui, e, se procederemo con vigore, il risultato finale sarà probabilmente un pianeta meno sano ma ancora vivibile.
* Membro del Carnegie Endowment di Washington DC. Il suo libro più recente è “The End of Power”. Naím è uno dei membri fondatori del comitato editoriale di We.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di dicembre 2021 di WE World Energy. WE World Energy è il magazine internazionale sul mondo dell'energia pubblicato da Eni - diretto da Mario Sechi - che con il suo portato di esperienza e scientificità si è guadagnato una posizione di grande rilievo nel panorama internazionale dei media di settore.