Un sogno che sembra sempre a portata di mano, ma non abbastanza vicino da poter essere afferrato. Potrebbe essere il riassunto di una storia che conta una lunga lista di vicoli ciechi, quella del primo reattore a fusione nucleare per la produzione di energia elettrica. A dare una nuova scossa al settore è la notizia che Breakthrough Energy Ventures (BEV), un fondo di investimento in tecnologie legate all’energia, ha investito 5 milioni di dollari in Commonwealth Fusion System (CFS), una startup nata nei laboratori del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, che punta a produrre energia dalla fusione nucleare entro i prossimi 15 anni. A suscitare interesse sono soprattutto i nomi dietro a BEV, uomini parimenti di affare e tecnologia, come Bill Gates, Jeff Bezos, l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, il fondatore di Alibaba Jack Ma e il patron della Virgin Richard Branson. Un interesse che ha già coinvolto anche Eni, che all’inizio del 2018 ha investito proprio in CFS 50 milioni, rilevando una grossa quota del capitale dell’azienda americana.
Imbrigliare l’energia delle stelle
Il processo di fusione nucleare che si cerca di imbrigliare è lo stesso che avviene nelle stelle, come il Sole. Gli atomi di idrogeno si fondono, formando elio e producendo grandi quantità di energia. Si tratta di una reazione diversa da quella della fissione, impiegata nelle attuali centrali nucleari, in cui l’energia viene prodotta dalla scissione degli atomi di uranio o plutonio, lasciando aperto il tema della gestione delle scorie. I vantaggi della fusione sono la sua potenziale inesauribilità e la limitata produzione di rifiuti residuali del processo, prospettando quindi una fonte di energia che non prevede l’emissione di CO2, uno dei gas serra responsabile del surriscaldamento globale.
Della possibilità di sfruttare la fusione per produrre energia elettrica si parla teoricamente dagli anni Trenta del Novecento, ma fino al 1958 alla conferenza Atoms for Peace di Ginevra i due principali attori del settore, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, hanno mantenuto sotto segreto militare le proprie ricerche. Dagli anni Settanta, la ricerca si è allargata in consorzi internazionali, diventando così vera e propria “big science”.
Secondo gli studi condotti dall’MIT, a parità di massa di combustibile impiegato, la reazione di fusione produce quattro volte la quantità di energia prodotto con la fissione. Finora, però, nessuno dei progetti attivi o passati in tutto il mondo è riuscito a realizzare una vera e propria centrale a fusione funzionante, mentre CFS conta di riuscire a mettere in opera la prima centrale da 200 MW elettrici nel 2033.
Le difficoltà della tecnologia
Replicare la reazione delle stelle sulla Terra presenta alcune difficoltà tecnologiche che sono alla base degli scetticismi che hanno accompagnato questi progetti fin dagli esordi. L’enorme forza gravitazionale presente nelle stelle crea le condizioni ideali per la fusione dei nuclei di idrogeno e la produzione di energia. Perché la fusione possa avvenire sul nostro Pianeta, il carburante delle reazione, composta da una miscela di due isotopi dell’idrogeno (deuterio e trizio) deve essere portato a 50 milioni di gradi centigradi e a una pressione tale da poter raggiungere lo stato di plasma in cui i protoni (caricati positivamente) e gli elettroni (caricati negativamente) che compongono gli atomi si separino. In queste condizioni, la forza attrattiva nucleare supera la repulsione elettrostatica tra particelle con la medesima carica elettrica, permettendo la fusione dei nuclei atomici. I neutroni liberati dalla fusione dell’idrogeno si muovono verso una parte del reattore, chiamato in gergo blanket, dove generano calore, il quale permette di produrre energia elettrica.
La soluzione adottata da CFS è il contenimento magnetico del plasma, in modo che non tocchi mai le pareti della struttura, all’interno di una struttura di forma toroidale, ovvero a ciambella, dove può essere attraversato da una forte corrente elettrica e messo in movimento praticamente perpetuo. La struttura scelta è del tipo tokamak (sigla russa che sta per toroidal'naya kamera s magnitnymi katushkami, camera toroidale con bobine magnetiche), teoricamente in grado di contenere plasmi che raggiungono fino a 100 milioni di gradi.
Altri approcci
Dopo una fase di stanca durante gli anni Novanta e i primi anni del Duemila, oggi la ricerca nella fusione nucleare è di nuovo in ampliamento. Le startup oggi sono circa una ventina e diversi sono i paesi che fanno ricerche su diverse soluzioni tecnologiche. La già citata CFS prospetta di investire 500 milioni di dollari per la produzione di SPARC (Smallest, Possible, Affordable, Robust and Compact), il reattore a fusione, e circa 2,5 miliardi per la realizzazione di Arc, la vera e propria centrale che dovrebbe diventare operativa nel 2033.
Il più noto esperimento in questo settore è ITER, un progetto iniziato nel 1985 dalla collaborazione tra Europa, Unione Sovietica, Giappone e USA, sotto l’egida dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA). L’ITER Fusion Energy Advanced Tokamak che dovrebbe essere completato nel sud della Francia nei prossimi anni. Con un costo complessivo di circa 3 miliardi di dollari, ITER sarà comunque solamente un dimostratore tecnologico, mentre la vera e propria centrale a fusione in grado di produrre energia dovrebbe essere realizzata tra il 2040 e il 2050.
Altri tokamak per la ricerca sono JET (Joint European Torus) e Mega Amp Spherical Tokamak (MAST), che si trovano in Gran Bretagna, e il TFTR di Princeton, negli Stati Uniti. La Cina, invece, ha annunciato la realizzazione di una versione più grande di ITER, denominata Chinese Fusion Engineering Test Reactor (CFETR) per i prossimi anni, mentre sta conducendo esperimenti con l’Experimental Advanced Superconducting Tokamak (EAST).
Il Giappone, invece, sta sviluppando una tecnologia diversa, sempre basata sul confinamento magnetico del plasma, che si chiama stellarator. Il Large Helical Device dell’Istituto Nazionale per la Ricerca sulla Fusione è operativo dal 1998. Stellarator sono anche il Wendelstein 7-X sviluppato dal Max Plank Institute di Greifswald (Germania) per 1,1 miliardi di dollari e il TJII che è operativo in Spagna. Anche la Corea del Sud ha investito nella fusione nucleare, affiancando al Korean Superconducting Tokamak Reactor (KSTAR) che ha prodotto il primo plasma nel 2008, con il K-DEMO Tokamak, un passo ulteriore nello sviluppo di reattori commerciali sulla base della tecnologia di ITER, sul quale il Ministero dell’Educazione, della Scienza e della Tecnologia ha già investito 941 milioni di dollari.
7 miliardi, invece, è il finanziamento per un progetto tutto USA che vuole sfruttare un’altra tecnologia, la inertial fusion energy, che ha completato la National Ignition Facility al Lawrence Livermore National Laboratory. Anche la Francia ha investito in questo tipo di tecnologia, con il Laser MegaJoule di Bordeaux che, come per il progetto americano, hanno il primario obiettivo di sviluppare i programmi nucleari militari e non quelli civili.
Nessuna di queste sperimentazioni, a differenza di quanto promesso da CFS e altre aziende che si sono affacciate negli ultimi anni, hanno come obiettivo primario la realizzazione di una centrale commerciale funzionante. Gli obiettivi principali sono di fungere da dimostratori tecnologici e piattaforme per lo studio dei problemi scientifici legati alla fusione nucleare.
Il nucleare dal 1940 a oggi
Al momento però parlare di energia nucleare significa parlare in concreto di fissione dell’atomo. Infatti, la tecnologia necessaria per sfruttare l’energia derivata dalla rottura (fissione) dell’atomo - ovvero la reazione scatenata dal decadimento del nucleo di un atomo in nuclei di atomi più piccoli, generando così energia e radioattività - è stata sviluppata negli anni Quaranta in ambito bellico (Progetto Manhattan). Inizialmente, infatti, il motore di questa innovazione è stata la rincorsa alla bomba atomica durante la Seconda Guerra Mondiale. Solo nel decennio successivo la tecnologia sviluppata è stata estesa ad applicazioni in ambito civile, più specificamente nel settore energetico. Ma non solo: a oggi, 225 reattori totali sono presenti in 50 nazioni (Italia compresa) che utilizzano l’energia nucleare a scopo di ricerca di base, medica e industriale.
Rimanendo nell’ambito energetico, oggi l’energia nucleare ottenuta tramite fissione fornisce circa l’11% del totale dell’elettricità mondiale (fonte: World Nuclear Association). Secondo i dati della International Atomic Energy Agency (IAEA), a oggi sono 454 i reattori attivi nel mondo distribuiti in 30 paesi nel mondo.
L’Europa occidentale, il Nord America e l’Asia Orientale mostrano di fatto numeri decisamente paragonabili sia in fatto di reattori attivi sia in termini di energia prodotta. Come dicevamo, solo 30 paesi ospitano almeno un reattore funzionante, ma i paesi che beneficiano di energia elettrica prodotta da nucleare sono molti di più. Si pensi all’Italia: se da un lato non si possono costruire reattori a scopo di produzione energetica sul nostro territorio (mentre si possono costruire quelli a scopo di ricerca), dall’altro non è vietato l’uso di energia elettrica generata da nucleare prodotta in altri paesi. Infatti, circa il 10% dell’energia elettrica utilizzata in Italia viene importata da centrali nucleari estere. Stesso discorso per la Danimarca.
A livello di singoli paesi, gli Stati Uniti sono quello con il maggior numero di reattori attivi (98) e sono il principale produttore mondiale di energia elettrica generata da fissione nucleare. Al secondo posto di questa classifica c’è la Francia, che conta 58 reattori attivi sul proprio territorio. La Francia è il paese del mondo nel quale il nucleare ha l’impatto maggiore sul totale della produzione di energia elettrica. Infatti, sul totale dell’energia elettrica prodotta dai transalpini nel 2017, più del 70% deriva da centrali nucleari: nessun altro paese fa altrettanto. In questa classifica Ucraina, Slovacchia e Ungheria inseguono producendo circa la metà dell’energia elettrica attraverso nucleare. Negli Stati Uniti, invece, solo un quinto dell’energia elettrica è prodotta da centrali nucleari.
Secondo la IAEA, nel 2017 i reattori a fissione nel mondo hanno immesso nella rete elettrica mondiale 2519 TWh (terawattora), mentre la produzione totale di energia elettrica dello stesso anno è stata di 24345 TWh (una percentuale che sta tra il 10 e l’11% sul totale). Gli Stati Uniti sono stati il maggior produttore al mondo, generando da soli poco meno di quanto generato da Francia, Cina e Russia, rispettivamente secondi, terzi e quarti produttori mondiali.
Sul piano ambientale ed energetico, l’energia atomica presenta innegabili vantaggi sia rispetto alle centrali che utilizzano combustibili come carbone, gas e petrolio sia rispetto alle energie rinnovabili. Delle prime ha un impatto molto minore in termini di emissioni, delle seconde risulta più efficiente perché non ha interruzioni di approvvigionamento. Tuttavia, ha anche risvolti decisamente problematici. Oltre alle questioni legate allo stoccaggio e allo smaltimento delle scorie, la storia della fissione nucleare come fonte energetica è stata anche segnata da gravi incidenti che hanno segnato la storia recente e sono rimaste anche un segno indelebile nell’immaginario collettivo.
I principali sono quelli di Three Mile Island, negli USA, del 28 marzo 1979; quello di Chernobyl, in Unione Sovietica (oggi Ucraina) il 26 aprile 1986; e infine quello di Fukushima, in Giappone, l’11 marzo 2011. Incidenti come questi, adattamenti legislativi, aggiornamenti tecnici, esigenze dettate da maggiore sicurezza e manutenzione hanno comportato negli anni la chiusura permanente di 169 reattori. La Germania è uno dei paesi con il maggior numero di reattori chiusi in modo permanente: 29 i reattori dismessi dai tedeschi negli anni, di cui 13 solo negli anni 2000. Solo gli Stati Uniti e il Regno Unito ne hanno spenti di più. Segue a ruota il Giappone, segnato dalla tragedia di Fukushima del marzo 2011.
Lo scenario 2020-2040
Alla fine di ottobre 2018 la IAEA censisce 54 reattori in costruzione che saranno collegati alla rete elettrica nei prossimi anni, ma per la World Nuclear Association sono almeno tra i 150 e i 160 quelli pianificati per i prossimi decenni.
Cina e India sono i paesi con il maggior numero di reattori in costruzione. Come afferma anche l’OPEC nel suo World Oil Outlook 2018, le economie emergenti rappresentano un fattore di crescita importante per l’aumento della domanda di energia nucleare atteso da qui al 2040. In uno scenario ipotizzato proprio dall’OPEC, il nucleare - inteso, anche qui, solo come fissione - è atteso da una crescita di 9 mboe/d (milioni di barili equivalenti di petrolio al giorno) da qui al 2040, che si traduce in un tasso di crescita medio percentuale annuo del 2,1%.
Sul totale della domanda di energia mondiale (quindi non solo quella elettrica), l’OPEC stima che al 2015 il nucleare avesse un impatto del 4,9%. Per il 2040, l’atomo è atteso a una crescita che lo porterà al 6,2% sul totale della domanda. Nella simulazione proposta dall’OPEC, solo gas naturale e rinnovabili cresceranno di più. Contemporaneamente, l’OPEC prevede il calo in proporzione dei principali combustibili fossili quali petrolio e carbone. Sostanzialmente inalterato l’apporto di idroelettrico e biomassa.
Nel 2017, anche il World Energy Outlook della IEA (International Energy Agency) ha presentato uno scenario da qui al 2040 che provava a ipotizzare una progressiva decarbonizzazione dell’energia mondiale. In questa simulazione, la IEA ha previsto che l’impatto del nucleare sulla produzione di energia elettrica potrebbe raddoppiare, portando a 5345 TWh la produzione annua totale (contro i 2500 TWh circa di oggi). La World Nuclear Association va addirittura oltre, proponendo uno scenario con numeri ancora più ambiziosi. Lo scenario è presentato nel report Harmony, che vede il nucleare direttamente al 25% (10mila TWh) sul totale dell’energia elettrica prodotta nel 2050.
Articolo realizzato in collaborazione con Eni.