A dicembre la Banca centrale europea scaricherà ufficialmente il 'bazooka' del 'quantitative easing' e il motivo principale per il quale nei prossimi mesi l'Italia rischia di cadere vittima di un attacco speculativo è questo, insieme all'incertezza sulle future scelte economiche di un governo che sulla manovra d'autunno si gioca tutto. Se spenderà troppo, cercando di portarsi avanti il più possibile con gli obiettivi di un programma costoso, perderà la fiducia degli investitori. Se spenderà troppo poco, soprattutto in campo di flat tax e reddito di cittadinanza, perderà quella degli elettori. Certo, se la Bce estendesse oltre la scadenza di dicembre le operazioni di acquisto di titoli di Stato che finora hanno tenuto lo spread sotto controllo, il problema si porrebbe in termini meno drastici. E ciò converrebbe a tutta l'Europa, non solo all'Italia e alle altre nazioni con debiti pubblici elevati. Parola di Giancarlo Giorgetti.
Quella lanciata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio dal palco del meeting di Rimini ha tutta l'aria di una richiesta ufficiosa. Il numero uno dell'Eurotower, Mario Draghi, che Giorgetti conosce bene, per accoglierla dovrebbe vincere però resistenze tedesche che al momento appaiono insormontabili. A meno che Draghi non riesca a persuadere la Germania che il "cigno nero" paventato dal ministro agli Affari Europei, l'eurocritico (la nomea di euroscettico non la sopporta) Paolo Savona, è una prospettiva tutt'altro che remota. Cigno nero che vuol dire nuovo rischio default per l'Italia e possibile implosione della zona euro. Un'implosione che, se avvenisse, non sarebbe frutto delle malversazioni degli speculatori, come il crollo di Lehman Brothers che innescò la crisi finanziaria del 2008, ma di scelte politiche precise che, se lo scenario peggiore si materializzasse, rivelerebbero la loro natura miope.
Una banca centrale che non fa la banca centrale
Il problema principale è sempre lo stesso: l'area euro è un'unione monetaria senza una banca centrale che funga da prestatore di ultima istanza, ovvero che garantisca sempre e comunque i titoli di Stato emessi dai Paesi dove questa moneta circola. Come avviene negli Stati Uniti e in Giappone, due nazioni con debiti pubblici colossali che pagano, nondimeno, rendimenti bassissimi sui titoli di Stato che vendono per finanziare il loro debito.
Dopo un estenuante braccio di ferro con la Bundesbank guidata dal falco dell'austerità Jens Weidmann, Draghi era riuscito a varare un programma di quantitative easing solo nel marzo 2015, ovvero cinque anni dopo l'inizio della crisi del debito greca. In Usa, invece, nemmeno un mese dopo il crac Lehman, il governo, allora guidato da George W. Bush, mise sul piatto centinaia di miliardi di dollari per purgare dai titoli tossici i bilanci delle banche, ricavandone in seguito ricche plusvalenze, mentre la Federal Reserve avviava un 'Qe' trilionario per rilanciare un'economia che, dopo il tonfo del 2009, sarebbe presto tornata a crescere a ritmi sostenuti nel 2010. I maxi investimenti in infrastrutture varati da un keynesiano Barack Obama avrebbero fatto il resto. La crisi in Usa era finita. In Europa era appena iniziata. Per tacere del Regno Unito, che quasi non la avvertì.
Il sacrificio di Atene
La Bce, sulla carta, è indipendente. In pratica, come ogni altra banca centrale, è vulnerabile a influenze politiche. In particolare quelle dell'azionista di maggioranza, la Germania, secondo la quale l'unico modo per risanare un Paese in crisi è una dura cura di austerità a base di tagli alla spesa e al welfare. Perché tale dottrina - che ha inoltre tra i suoi fautori l'Olanda e i Paesi baltici - sia discutibile lo si è visto con la Grecia, uscita straziata da otto anni di dure riforme imposte dalla 'troika' di creditori internazionali (Ue, Fmi e Bce) in cambio dei prestiti concessi per pagare i debiti preesistenti e rimettere in sesto i conti.
La dinamica del "salvataggio" di Atene, vista con la fredda lente delle logiche economiche, appare tortuosa, se non bizzarra. Di fronte a un debitore insolvente del quale non si vuole il fallimento, il creditore di solito estende i termini di pagamento, o provvede a una ristrutturazione (ovvero quello che il Fondo Monetario Internazionale aveva chiesto più volte agli altri due membri della troika), non concede prestiti per poter pagare altri prestiti. Così come, per riportare il rapporto tra deficit e Pil sotto la magica soglia del 3% previsto dai trattati di Maastricht, è più efficace effettuare investimenti che risollevino il Prodotto interno lordo piuttosto che imporre tagli dagli effetti recessivi. Ma allora qual è la logica?
In primo luogo le misure di austerità imposte hanno avuto anche una funzione punitiva. Quanto accaduto ad Atene doveva fungere da monito per tutti. Questa non è una lettura dietrologica ma è quanto si evince dalle ripetute dichiarazioni nelle quali Weidmann e l'ex ministro dell'Economia tedesco, Wolfgang Schaeuble, avevano attaccato Draghi sostenendo che offrire sollievo alle nazioni indebitate le avrebbe private degli incentivi necessari a tagliare il debito. In secondo luogo i "prestiti per ripagare i prestiti" sono stati una complessa partita di giro che ha avuto l'effetto, come abbiamo spiegato in passato, di "spalmare" l'esposizione al debito ellenico delle banche tedesche e francesi sugli altri Paesi dell'area euro, in particolare l'Italia.
La logica dell'austerità
La dottrina dell'austerità e della politica monetaria il meno accomodante possibile ha quindi una sua logica, ritagliata sulle esigenze dell'economia tedesca. Per molti analisti è anche una questione culturale. C'è chi ricorda che la parola tedesca per "debito" è "schuld", che vuol dire anche "colpa". C'è chi sostiene che l'aumento dell'inflazione comportato da bassi tassi di interesse (aumento che in Europa è stato tuttavia lentissimo a causa di una domanda asfittica) rievochi addirittura gli spettri della Repubblica di Weimar. La vera spiegazione è però molto più terra terra.
Abbassare i tassi di interesse, che Draghi ha promesso resteranno sotto zero ancora per un po', ha creato forti danni ai risparmiatori teutonici, che tendono ad affidare i loro soldi alle banche locali, le quali erano solite offrire rendimenti molto interessanti che, in un contesto di basso costo del denaro, non possono essere più garantiti. Tassi bassi invitano piuttosto a investire nel mattone. E difatti, negli ultimi anni, i prezzi degli immobili in Germania sono schizzati alle stelle. Il che ha fatto salire ulteriormente un costo della vita già cresciuto a causa degli effetti inflattivi della politica monetaria di Draghi. Il 'Qe' e i tassi a zero hanno infatti sferrato un duro colpo a uno dei pilastri del modello tedesco: tenere i salari sotto controllo per mantenere la competitività dell'industria e quindi dell'export. E risorse che prima circolavano nel sistema del credito sono state drenate dal mercato immobiliare. Ciò è sufficiente a comprendere perché la Bundesbank non accetterebbe mai una proroga del termine del 'Qe'. Nonché a sottolineare il principale punto debole dell'euro, una moneta unica che circola in Paesi che hanno esigenze divergenti in campo di politica monetaria.
L'ultima spiaggia: il piano anti-spread
In sintesi, a meno che Draghi non riesca ancora una volta a convincere Angela Merkel di quale sia la posta in gioco, se l'Italia venisse attaccata dai mercati in autunno e finisse per ritrovarsi di nuovo sull'orlo del baratro, la Bce avrebbe una sola carta per evitare il disastro: lanciare le "Outright Monetary Transactions" (Omt), il cosiddetto "piano anti-spread", che non è mai stato attuato ma il cui solo annuncio, nell'agosto 2012, riuscì a fermare il terremoto che si era abbattuto sui mercati del debito dell'Eurozona nei mesi precedenti.
Cosa prevede il piano anti-spread? Che la Bce acquisti senza limiti prestabiliti titoli a breve termine di un Paese che ne richieda l'applicazione. Il problema è che, per attivarlo, un governo con difficoltà a finanziarsi sui mercati deve prima chiedere soccorso ai fondi salva-Stati europei (l'Esm e l'Efsf) e concordare un piano di riforme economiche e di tagli. Solo allora, e solo una volta collocata con successo un'asta di bond a 10 anni, la Bce può intervenire (già, perché Francoforte acquista titoli sul mercato secondario, cioè dalle banche, e non direttamente dal Tesoro).
In sostanza, per accedere al piano anti-spread, l'Italia dovrebbe accettare un commissariamento di fatto, come la Grecia, peggio della Grecia. Un'operazione simile avrebbe costi politici enormi, di fronte ai quali un governo dichiaratamente sovranista non potrebbe che essere tentato dal ricorrere al famigerato 'piano B', ovvero tentare la strada di un'uscita negoziata dall'euro, giacché una "Italexit" disordinata avrebbe effetti talmente devastanti da non convenire a nessuno, Berlino in testa. Può sembrare uno scenario estremo e forse lo è. È lecito aspettarsi che tutto si concluda con una manovra cauta che plachi i mercati. Ma "scenario estremo" non vuol dire "scenario impossibile". Anche la Brexit fino a due anni fa sembrava un "cigno nero".