Un taglio del personale da 18 mila addetti e una bad bank dove concentrare titoli ad alto rischio per 74 miliardi. Ed è solo l'inizio. Dopo il fallimento della fusione con Commerzbank, fortemente voluta dal governo di Berlino, era solo questione di tempo perché Deutsche Bank annunciasse i primi passi di una dolorosa ristrutturazione che, con l'obiettivo di tornare a produrre utili, obbligherà l'istituto tedesco a un radicale ripensamento del proprio modello di business.
Deutsche Bank era nata come la banca che doveva sostenere le industrie tedesche nel mondo. Poi volle fare l'americana. E puntare su quei settori - dal mercato dei derivati al trading di azioni - che avevano fatto la fortuna dei giganti di Wall Street, gli stessi settori che ora sarà costretta ad abbandonare per tornare ad attività più tradizionali e, soprattutto, meno perigliose: gestione del risparmio, finanziamento alle imprese, mercati valutari e consulenza.
Perché per fare gli americani bisogna avere alle spalle la Federal Reserve, una banca centrale in grado di spegnere qualsiasi incendio in maniera breve ed efficace, come avvenne all'indomani del crac di Lehman Brothers. E il governo deve poter aumentare il deficit quanto necessario per fare la sua parte nel soccorrere le società in crisi, cosa impossibile con tetti e parametri da rispettare, come avviene in Europa.
Ci sono migliaia di miliardi di titoli tossici nei bilanci delle banche statunitensi? Si assorbono. C'è da sostenere il sistema con iniezioni di liquidità altrettanto colossali? Lo si fa, per quanto tempo si vuole. Tutte cose che la Banca Centrale Europea, stretta tra le rigide regole dell'Eurosistema e la necessità di trovare un accordo tra Stati diversi con esigenze economiche e monetarie diverse, non può fare. Per questo negli Usa la crisi finanziaria superò il picco in pochi mesi e in Europa risentiamo ancora delle sue conseguenze. Il confronto è impari anche con Londra che, quando Lloyds e Royal Bank of Scotland stavano colando a picco, le nazionalizzò in un batter d'occhio. Per nazionalizzare Deutsche Bank senza percorsi troppo tortuosi, la Germania dovrebbe riscrivere da capo le regole comunitarie.
La conclusione è molto semplice. Se una banca può essere salvata con interventi pubblici diretti, immediati e illimitati (le varie operazioni di finanziamento avviate negli anni scorsi da Mario Draghi non lo erano), gli azionisti non si faranno sconvolgere troppo da qualche bilancio in rosso o da un'esposizione ai derivati eccessiva. Se ciò non può avvenire, e nell'area euro non può avvenire, la cosa più ragionevole da fare è vendere, anche perché, con la direttiva sul bail-in, sarebbero proprio gli investitori a pagare, qualora le cose si mettessero male davvero.
Una crisi di credibilità
Seppure spieghi molto, questa impossibilità strutturale di competere con i concorrenti angloamericani nelle aree più rischiose della finanza, non spiega del tutto la crisi di Deutsche Bank, una crisi che è stata anche di credibilità. Perché, se certi eccessi di disinvoltura non sorprendono quando a commetterli sono banche statunitensi o britanniche, Deutsche Bank aveva rappresentato per decenni l'emblema dell'affidabilità teutonica. Un'immagine finita in pezzi con un susseguirsi di scandali iniziata nel 2015 con il caso della manipolazione fraudolenta del Libor, il tasso di riferimento sui mutui immobiliari. I vertici di allora furono costretti a dimettersi e il conto di multe e risarcimenti superò i due miliardi e mezzo. L'anno si chiuse con una perdita netta di 6,8 miliardi di euro.
Le conseguenze dello scandalo andarono ben oltre l'esborso. Il caso fu un colpo durissimo per la credibilità della compagnia e, in una certa misura, del sistema Germania. Il risultato fu una fuga degli azionisti. La capitalizzazione di mercato, che all'inizio del 2015 superava i 40 miliardi di dollari (cifra che era già meno di un millesimo dell'esposizione a derivati), sprofondò fino a toccare un minimo di 15,7 miliardi di dollari nel settembre 2016, mese nel quale il dipartimento di Giustizia Usa chiese il pagamento di una sanzione da 14 miliardi di dollari (successivamente ridotta della metà) per irregolarità nella vendita di obbligazioni garantite da mutui. Il titolo in borsa avrebbe risalito la china solo al prezzo di una ristrutturazione pesantissima, costata migliaia di posti di lavoro.
Fuori Cryan, arriva Sewing
La voragine nei conti verrà ridotta gli anni successivi, chiusi comunque in rosso (di 1,4 miliardi nel 2016 e 0,7 miliardi nel 2017). I guai legali, nel frattempo, sarebbero continuati. Nel gennaio 2017 arriva dagli Usa un'altra multa da 425 milioni di dollari per violazione delle sanzioni alla Russia, seguita da indagini in Australia per violazione delle leggi sulla concorrenza. A soccorrere il gigante coi piedi d'argilla arrivano i soliti cinesi: il gruppo Hna aumenta la propria partecipazione fino al 10%, diventando il principale azionista.
Ma gli investitori hanno perso la pazienza: speravano in un ritorno in utile nel 2017, invece il taglio dei costi non sembra sortire gli effetti sperati, il fatturato è sceso ai minimi da sette anni, il ramo investment banking continua a generare ricavi decisamente inferiori rispetto alla concorrenza e la vendita delle attività in Spagna, Portogallo e Belgio non viene mai portata a termine.
Si scoprono perdite legate ai derivati delle quali gli azionisti non sapevano nulla, confermando l'immagine di una banca poco trasparente e con parecchi scheletri (contabili) nell'armadio. E, soprattutto, non sembra esserci una strategia di rilancio chiara. Nell'aprile 2018 l'amministratore delegato John Cryan, reclutato nel 2015 per ripartire dopo lo scandalo Libor, è costretto a lasciare il posto al capo del settore retail, Christian Sewing, che si ritrova una banca le cui azioni si sono deprezzate del 30% solo dall'inizio dell'anno. In borsa la performance di Deutsche Bank fu, quell'anno, la peggiore tra i grandi istituti europei. Il titolo di migliore, per la cronaca, spettò all'italiana Unicredit.
Farewell America
La prima iniziativa di Sewing è portare da 9 mila a 10 mila i licenziamenti previsti dal piano al 2020. La seconda è annunciare un drastico ripensamento del modello di business. Via dai mercati obbligazionari americani, dove la concorrenza dei padroni di casa è troppo agguerrita, per tornare a concentrarsi sul mercato europeo, sui prestiti alle grandi aziende, cercando di recuperare la vocazione originale di "una banca tedesca per la Germania". Numerosi dirigenti lasciano in aperta polemica. È infatti la divisione americana, ovvero quella che Sewing vuole sottoporre a un drastico ridimensionamento, quella che fa più utili. Un brusco memento sarebbe giunto a breve.
Sewing non ha nemmeno il tempo di respirare che dalla Federal Reserve, nel giugno 2018, arriva la seconda bocciatura consecutiva negli stress test sui piani di capitale e la qualità della gestione. Su questo punto era venuta fuori, intanto, una gaffe incredibile, relativa al versamento per errore a Macquarie di ben 30 miliardi di dollari, poi recuperati, dovuto - pare - a un errore umano. La divisione Usa di Deutsche Bank è l'unica, su 35 banche, a non vedersi approvati i piani su dividendi e buyback.
I supervisori della Fed riscontrano "ampie carenze" nei sistemi interni di controllo della banca tedesca e nella gestione dati. E una delle conseguenze della bocciatura è una limitazione dei profitti che la filiale nordamericana può rimpatriare a vantaggio della casa madre a Francoforte. Una limitazione dolorosa: da due anni i bilanci dell’istituto sono in rosso e la divisione statunitense è uno dei pochi rami che ancora fanno utili. Nel frattempo, in borsa, le perdite accumulate dall'inizio dell'anno sono giunte al 41% e il prezzo delle azioni è sceso sotto la soglia psicologica dei 10 euro.
C'è del marcio in Danske Bank
Poco più di quattro mesi dopo ricominciano i guai giudiziari. Il 29 novembre parte un'ondata di perquisizioni negli uffici di Francoforte di Deutsche Bank. Le accuse sono pesanti: riciclaggio di denaro sporco attraverso la creazione di società nei paradisi fiscali. Le operazioni sotto inchiesta erano iniziate nel 2013 ed erano state eseguite dalla divisione gestione patrimoniale della banca, un'unità che nel 2015 era passata sotto la responsabilità dello stesso Sewing, dal cui arrivo la capitalizzazione di mercato è intanto scesa di un altro 28%. A erodere ulteriormente la fiducia degli azionisti erano stati poi gli stress test della Bce, che avevano rilevato una posizione patrimoniale sempre più debole.
L'indagine rientra nel quadro dell'inchiesta sui Panama Papers: la banca è accusata di avere "aiutato alcuni clienti a creare società off-shore nei paradisi fiscali" allo scopo, appunto, di riciclare denaro. Denaro di origine criminale, trasferito su vari conti della Deutsche Bank senza che sia stata denunciato alle autorità preposte alcun sospetto sull'origine irregolare delle somme. Solo nel 2016, una società legata alla banca con sede alle Isole Vergini, avrebbe gestito ben 900 clienti per un volume d'affari complessivo di 311 milioni di euro.
A rendere ancora più grave l'impatto della nuova inchiesta è che quest'ultima si somma alle indagini già in corso su Danske Bank. La filiale estone della banca danese è indagata dal dipartimento di Giustizia, che la accusa di aver riciclato miliardi di dollari a favore di operatori russi impegnati in attività illecite. Dei 230 miliardi di dollari di transazioni sospette, secondo gli inquirenti, circa la metà sarebbe passata - fino al 2013 - attraverso Deutsche Bank, che avrebbe fatto da sponda a Danske Bank per convertire i fondi potenzialmente sospetti in dollari ed euro. L'inchiesta non solo non si è ancora chiusa ma ha visto affiancarsi, nel gennaio 2019, un'indagine parallela avviata dalla Federal Reserve.
Derivati per sedici volte il Pil tedesco
C'è poi il vero elefante nella stanza, quello dell'immane esposizione ai derivati (i prodotti finanziari il cui valore dipende da quello di un altro strumento, quelli - per intenderci - alla base della crisi dei mutui del 2008) nella pancia dell'istituto: oltre 43 mila miliardi di dollari, ovvero sedici volte il Pil della Germania.
Oggi sul Financial Times è uscito un articolo che minimizza la questione e sostiene (non a torto) che l'esposizione netta è di molto inferiore è che a gridare al lupo sono i soliti complottisti del blog ZeroHedge. Non molto tempo prima lo stesso quotidiano della City, per descrivere la situazione, suggeriva però di "immaginare di acquistare una casa per duemila dollari con garanzie per un dollaro" per sottolineare la sproporzione tra valore di mercato ed un'esposizione ai derivati che è il 12% di quella totale mondiale. E in un rapporto del giugno 2016 il Fondo Monetario Internazionale aveva definito la Deutsche Bank come "la più grande fonte potenziale al mondo di shock esterni per il sistema finanziario".
La questione è dibattuta ma, non per questo, meno preoccupante. Forbes afferma che quella cifra non rappresenta il reale rischio di credito di Deutsche Bank. Ma sottolinea, nondimeno, che, anche se solo nominale, un'esposizione così enorme, per essere gestita e ridurre al minimo i possibili errori, richiede una gran quantità di operatori specializzati. Come potrà farlo una banca che sta licenziando migliaia di persone? Non solo, osserva Forbes, in questo momento ogni dipendente di Deutsche Bank sa di poter essere il prossimo a ricevere il benservito e sarà, presumibilmente, più occupato a cercare un'alternativa che a impegnarsi al massimo nel proprio lavoro attuale.
Un altro grande problema non risolto è, infine, l'opacità contabile dell'istituto, in particolare per quanto riguarda i rischi legati all'inadempienza delle controparti. Rischi che non sono calcolabili, conclude ancora Forbes, e dei quali si possono solo supporre le dimensioni alla luce di un'esposizione ai derivati simile. Nel dubbio, tanti investitori non potranno che continuare a vendere.