"Negli ultimi venticinque anni e con ogni probabilità nel futuro, la demografia ha dato e darà un contributo diretto sensibilmente negativo alla crescita economica". L'allarme è contenuto in un Occasional Paper della Banca d'Italia, secondo cui "i flussi migratori previsti limiteranno l'ampiezza di tale contributo negativo", anche se "non saranno in grado di invertirne il segno".
Di qui l'invito dei tre curatori dello studio - Federico Barbiellini Amidei, Matteo Gomellini e Paolo Piselli - a intervenire su estensione della vita lavorativa, aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e incremento nei livelli di istruzione per "contrastare i puri effetti contabili legati all'evoluzione nella struttura per età".
Il contributo alla crescita economica della modifica nella composizione per età della popolazione, affermano i ricercatori, "può essere significativo. Paesi la cui popolazione mostra, ad esempio, una quota di giovani in crescita hanno le potenzialità per raccogliere un dividendo dall'evoluzione demografica attraverso l'aumento dell'offerta di lavoro per quantità e qualità.
Gli aumenti della popolazione giovane in età da lavoro, influiscono anche sulla composizione per età degli occupati producendo, oltre agli effetti diretti sulla crescita economica attraverso l'aumento dei tassi di occupazione e l'incremento dei livelli di efficienza, effetti indiretti sulla dinamica della produttività innanzitutto attraverso l'impatto sull'innovazione sull'innovazione e l'imprenditorialità.
La flessione nei dependency ratio (rapporto tra la popolazione in età non lavorativa e la popolazione in età lavorativa) ha di per sè effetti benefici sulla crescita economica.
L'Italia", rileva lo studio, "è tra i paesi sviluppati che si trovano oggi a fronteggiare uno scenario demografico il cui impatto sulla crescita del prodotto pro capite nei prossimi decenni sarà negativo".
Per più di un secolo dall'Unità, la percentuale di popolazione anziana (oltre i 64 anni), pur crescendo, si è attestata in Italia su livelli inferiori alla metà della popolazione più giovane (con meno di 15 anni). A partire dal secondo dopoguerra, ma soprattutto dalla fine degli anni Ottanta, si assiste a un progressivo mutamento strutturale che ha condotto la popolazione più anziana a superare quella più giovane alla fine del XX secolo, fino a divenire pari al 165 per cento della popolazione tra 0- 14 anni nel 2017.
Le prospettive per il prossimo cinquantennio, afferma lo studio, sono di un'ulteriore crescita del rapporto, mentre l'età media della popolazione salirà di oltre 5 anni tra il 2017 e il 2061, passando da 44,9 a 50,2. La quota di popolazione in età da lavoro ha raggiunto un massimo del 70 per cento all'inizio degli anni '90; negli ultimi venticinque anni ha cominciato a flettere e, sulla base delle previsioni, continuerà a ridursi nel prossimo cinquantennio fino a scendere sotto il minimo storico (59 per cento registrato nel 1911) dopo il 2031.
Se scomponiamo questa quota per cittadinanza, circa un quarto della popolazione in età da lavoro sarà costituita nel 2061 da cittadini stranieri. In uno scenario limite in cui non ci fossero residenti con cittadinanza straniera, nel 2061 la quota di popolazione in età 15-64 anni sul totale della popolazione, prevista pari al 55 per cento, scenderebbe a poco più del 40 per cento.
Gli sviluppi demografici sarebbero dunque stati ancor più penalizzanti per l'Italia se non fosse intervenuto negli ultimi 25 anni un significativo flusso migratorio in entrata. "Oggi, come ieri", sottolineano i tre ricercatori della Banca d'Italia, "la maggior parte dei migranti è rappresentata da individui in età lavorativa" e "i paesi che ricevono i flussi migratori vedono aumentare quindi la quota di popolazione in età lavorativa e ridursi il dependency ratio della popolazione più anziana. Inoltre", aggiunge lo studio, "le migrazioni, modificando il tasso medio di fertilità, possono avere un ulteriore impatto (ritardato) su dimensione e struttura per età della popolazione".
Particolarmente importante è risultato il contributo dei migranti alla crescita del Pil nel decennio 2001- 2011: la crescita cumulata è stata positiva per 2,3 punti percentuali mentre sarebbe risultata negativa e pari a -4,4 per cento senza l'immigrazione. Il Pil pro capite senza la componente straniera avrebbe subito nel decennio 2001-2011 un calo del 3 per cento, invece del -1,9 per effettivamente registrato. Ancora significativo è risultato il contributo della popolazione straniera per l'ultimo quinquennio, quello della della crisi: la flessione del Pil pro capite (-4,8 per cento) sarebbe stata nello scenario controfattuale di assenza della popolazione straniera più severa (-7,4 per cento).
Passando ad analizzare i potenziali effetti dell'evoluzione demografica futura sulla crescita economica, lo studio sottolinea che "l'effetto meccanico delle dinamiche demografiche determinerebbe in 45 anni un calo del Pil del 24,4 per cento rispetto ai livelli del 2016 e del 16,2 per cento in termini pro capite (-0,4 medio annuo), a parità di altre condizioni".
Per compensare il contributo negativo della demografia, in modo da mantenere il reddito reale pro capite sui livelli attuali, la produttività dovrebbe crescere a un ritmo dello 0,3 per cento all'anno. "Una dinamica apparentemente modesta ma superiore a quella pressoché nulla registrata dall'inizio del nuovo secolo", fanno notare i ricercatori. Se poi si azzerassero i flussi migratori futuri e la componente di popolazione straniera già residente in Italia al 2016 assumesse parametri demografici identici a quelli dei nativi italiani il risultato sarebbe devastante.
"Il livello del Pil aggregato risulterebbe dimezzato con un calo del 50 per cento. Il livello del reddito pro capite nel 2061 risulterebbe inferiore di un terzo rispetto al livello del 2016. Per compensare la diminuzione del reddito pro capite, la produttività dovrebbe crescere allo 0,64 per cento all'anno. Secondo i tre studiosi di via Nazionale, soltanto "risposte comportamentali e modifiche istituzionali potranno mitigare le conseguenze economiche negative di una popolazione più anziana, controbilanciando la tendenza alla riduzione della forza lavoro".
E tre sono i "motori" più importanti in questa direzione: "L'allungamento della vita lavorativa, l'aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e l'evoluzione nella dotazione di capitale umano della forza lavoro". L'estensione della vita lavorativa fino a 69 anni, ad esempio, ridurrebbe di sette punti percentuali la flessione del Pil pro capite (-9,2% rispetto a -16,2%) dovuta all'evoluzione demografica sull'orizzonte 2016-2061.
Portare il tasso di occupazione al 70% per gli uomini e al 60% per le donne come previsto dall'Agenda di Lisbona conterrebbe al 2,9% il calo del Pil pro-capite. Attraverso un aumento del livello medio di istruzione per occupato tale per cui l'Italia raggiungerebbe nel 2061 il livello che la Germania avrebbe nel 2040 (14,3 anni), infine, il Pil pro capite aumenterebbe di quasi 10 punti percentuali rispetto al livello attuale.