La K & R è una società assicurativa specializzata nelle contrattazioni in caso di rapimento. In Italia non siamo abituati a questo genere di realtà, specie da quando nel 1991 una legge ha decretato il congelamento dei beni del rapito, della famiglia e, a discrezione del giudice, anche di qualsiasi altro soggetto che potrebbe rendersi disponibile a pagare il riscatto. Sempre la stessa legge, messa in discussione molto più di quanto ricordiamo (per esempio dall’allora senatore portavoce dei Verdi Luigi Manconi che presentò un ddl per l’abrogarla considerandola “immorale”), vieterebbe anche la stipula di un contratto assicurativo.
Siamo, come detto, nel 1991 ma il fenomeno ha radici ben più lontane; l’ideazione della particolare polizza risale infatti agli anni ’30, ma solo negli anni ’60 il mercato comincerà a concretizzarsi sul serio, in seguito al sorgere in Europa di associazioni sovversive come, per esempio, le Brigate Rosse in Italia. È solo nel 1970 però che la K & R sbarca nel mercato rivoluzionandolo. La mente che sta dietro la svolta è quella di Julian Radcliffe, un agente assicurativo che convince i vertici della sua azienda, la K & R per l’appunto, a creare una controllata, la Control Risks, che si servisse di esperti di sicurezza, soprattutto ex militari e poliziotti per entrare a gamba tesa direttamente nelle contrattazioni, fornendo un’alternativa a quelle gestite dal governo.
Un omicidio in strada fa nascere l'idea
Nel 1982 Doug Milne, uno dei broker della K & R, decide di intraprendere un viaggio per individuare nuovi mercati e scoprendo la realtà di un territorio che in questo senso, tristemente, rappresentava un business stratosferico: il Sudamerica, e in particolare la Colombia. Se ne rende conto camminando per strada a Bogotà e osservando un ragazzo che si avvicina a passo svelto in direzione dell’uomo che lo anticipava sul marciapiede facendogli letteralmente esplodere la testa. L’avvenimento è scioccante, si, ma non c’è dubbio: era nel posto giusto; per quanto il fatto lo possa aver “inorridito” (come dichiara al Guardian che ha dedicato un’inchiesta all’argomento) venne illuminato sul fatto che il paese fosse davvero in mano a criminali e guerriglieri, ai quali la pratica del rapimento era particolarmente cara.
Un mercato florido e vergine. Infatti Milne, che racconta ai tempi di essere stato considerato dai suoi nuovi facoltosi amici colombiani una sorta di James Bond, riesce a far firmare polizze a tutto il suo club di golf. Ma se state pensando alle figure di loschi uomini d’affari o venditori di fumo interessati allo sfruttamento delle disgrazie altrui siete fuori strada, il ragionamento è molto più complesso. I dati che portano a casa le compagnie assicurative che si occupano della negoziazione dei riscatti in occasione di rapimenti sono stupefacenti: oltre il 97% dei sequestri gestiti da negoziatori professionisti sono risolti con successo attraverso il pagamento di un riscatto, una piccola percentuale di ostaggi riesce a fuggire, un’altra piccola percentuale viene salvata con azioni di forza ad alto rischio e un’altra minuscola percentuale, inferiore all’1%, viene uccisa. Tant’è che il meccanismo ideato da R & K e oggi messo in atto dai due principali colossi del settore (Hiscox nel Regno Unito e AIG negli Stati Uniti), è oggetto di studio e conferenze in tutto il mondo.
Il caso del sequestro Guinness
Chiaramente il risultato dell’operato di queste agenzie assicurative risulta essere regolarmente un braccio di ferro con i vari governi, che non hanno mancato in passato di accusare proprio queste società di alimentare in qualche modo il mercato dei rapimenti ma, di nuovo, il ragionamento da fare necessita maggiore accuratezza. Il caso finisce sulle prime pagine dei giornali nel 1986, quando viene rapita Jennifer Guinness, moglie del banchiere John Guinness, appartenente alla famiglia dei noti produttori di birra. I rapitori in quell’occasione chiedono 2 milioni di sterline, il marito attiva il personale della Control Risks, ma in quel caso la donna viene liberata con un intervento armato, anticipando il pagamento del riscatto.
Il governo Thatcher si scaglia contro queste assicurazioni che metterebbero “un bersaglio sulle spalle dei cittadini britannici, aumentando il rischio di futuri rapimenti” e in più farebbero finire enormi quantità di denaro nelle mani di gruppi terroristici con il quale poi verrebbero finanziate operazioni criminali. Un ragionamento tutto sommato lineare, talmente lineare da proseguire tra i banchi del parlamento inglese dove viene ipotizzato anche un divieto alle società assicurative di questo genere in tutta Europa. In quel caso proprio la K & R si difende sostenendo che tutti i loro contratti restano segreti, che le persone vengono rapite perché considerate benestanti e la stipula di un’assicurazione nettamente inferiore rispetto al patrimonio del cliente dovrebbe al contrario scongiurare eventuali malintenzionati che, comunque, non riuscirebbero mai a mettere le mani su grosse cifre.
Un equivoco legislativo
La legislazione a livello europeo non passò ma i singoli stati cominciarono a pianificare l’introduzione di una legislazione precisa per combattere il fenomeno e una nuova stagione di rapimenti che, tra l’altro, colpì in maniera piuttosto importante proprio l’Italia. Ma, come ricorda sempre il Guardian nella sua inchiesta, il risultato fu che le famiglie, a prescindere dal coinvolgimento o meno di società assicurative specializzate, cominciarono a mantenere l’assoluto riserbo circa i casi di rapimento, preferendo mettere le mani in tasca e pagare piuttosto che instaurare un pericoloso gioco di forza con i sequestratori mettendo a rischio la vita dei propri cari.
L’equivoco legislativo che mette alle strette tutte le parti in causa in casi di questo tipo è dimostrato dal fatto che quei paesi che non hanno attivato il congelamento dei beni dei rapiti, come la Spagna per esempio, che invece ha dato ordine alle forze speciali di riportare a casa le vittime costi quel che costi, vedono alzarsi notevolmente la percentuale di successi.
La stagione del terrorismo
Un’ulteriore svolta al mercato avviene con il dramma dell’11 settembre del 2001. L’occidente vede materializzarsi il fenomeno del terrorismo in diretta mondiale. Gli Stati Uniti puntano il dito verso le organizzazioni terroristiche, che diventano il nemico numero uno, un nemico da combattere e, per riallacciarci all’argomento oggetto dell’inchiesta del Guardian, in maniera più assoluta non “finanziabile”. In pratica, non un centesimo da parte di un governo può finire nelle mani di alcuna associazione terroristica. Così viene redatta una lista ben precisa di gruppi terroristici ai quali viene vietato per legge di versare riscatti.
Anche in questo caso si crea una zona d’ombra complessa da illuminare: la distinzione tra organizzazioni criminali e organizzazioni terroristiche non è solo molto vaga ma anche impossibile da accertare nei casi di rapimento, considerato che quasi sempre le associazioni criminali hanno rapporti stretti con quelle terroristiche, e il contrario. In ogni caso i soldi di un riscatto pagato finiscono in un buco nero criminale cui geografia è troppo complicato ricostruire.
Così, secondo le testimonianze raccolte da negoziatori delle assicurazioni, i rapitori o tengono ancor più nascosta la propria identità (cosa che complica evidentemente la situazione) o si dichiarano come appartenenti a organizzazioni criminali in modo tale da poter essere autorizzati a trattare con chicchessia un riscatto. Per legge, una volta cominciate le contrattazioni e presi i primi contatti, spetterebbe alle assicurazioni dimostrare che quel determinato gruppo non rientra nella black list, così le società hanno deciso di aggirare il problema scegliendo di non fare alcuna domanda in proposito, di non voler nemmeno sapere chi sono i rapitori e per conto di chi agiscono, ma condurre fredde trattative come se si stesse contrattando una qualsiasi merce, per riportare a casa le vittime il prima possibile.
Collaborare con i governi?
Con le nuove leggi insomma, i governi hanno le mani legate: non possono negoziare e non possono nemmeno agire con la forza dato che questo genere di interventi risultano essere o particolarmente pericolosi, come nel caso di Steve Farrell, giornalista del New York Times rapito nel 2009 in Afghanistan e liberato con un raid dalle forze speciali britanniche, azione che però costò la vita, oltre che di nove rapitori, anche di un soldato inglese e del collega afgano di Farrel Sultan Munadi; o particolarmente difficili da mettere in atto, infatti pochissimi governi hanno a disposizione la tecnologia per scovare i rapitori e assaltarli con mezzi discreti. Insomma, le probabilità di mettere a repentaglio la vita della vittima si alzano notevolmente.
Un’altra differenza sostanziale tra le società che si occupano della negoziazione di riscatti e il governo è la questione economica: l’assicurazione ha facoltà di trattare con i rapitori al ribasso, ridimensionando su cifre realistiche e decisamente inferiori le richieste del gruppo, un governo non può certo addurre la scusa di non avere la possibilità economica di provvedere alla spesa. In più, sempre secondo The Guardian, una serie di studi condotti sul tema dimostrerebbero che la nazionalità non avrebbe alcuna influenza sulla scelta di rapire o meno da parte dei criminali, perciò il rifiuto da parte dei governi di trattare non farebbe altro che aumentare la probabilità che la persona rapita venga uccisa.
Insomma il fenomeno è molto complesso da bloccare, ma si può operare in maniera decisiva affinché venga rimpicciolito il più possibile. D’altra parte non tutti possono concedersi il lusso di pagare una polizza assicurativa contro il rapimento, per questo secondo le stesse aziende, la cosa migliore sarebbe fare squadra insieme ai governi, che potrebbero addirittura dare il loro contributo per inserire la polizza insieme a quelle standard riguardanti i viaggi e sviluppare programmi specializzati per quelle categorie costrette a viaggiare per lavoro e che risultano essere ad alto rischio, come per esempio i giornalisti freelance o chi si aggrega ad associazioni umanitarie. Ma quando il Guardian ha sentito il Ministero degli Esteri inglese la risposta è stata che l’argomento non è nemmeno preso in considerazione.